Lo strabismo ideologico che presso i giovani penalizza i lavori manuali
C’è qualcosa di nuovo oggi nel lavoro (manuale), anzi d’antico. La parafrasi della nota poesia di Pascoli è utile per inquadrare un tema che non è recente, ma che assume oggi una significatività diversa: il progressivo declino del valore sociale del lavoro manuale.
di Daniele Marini
4' di lettura
C’è qualcosa di nuovo oggi nel lavoro (manuale), anzi d’antico. La parafrasi della nota poesia di Pascoli è utile per inquadrare un tema che non è recente, ma che assume oggi una significatività diversa: il progressivo declino del valore sociale del lavoro manuale. Le professioni dell’operaio e del contadino, assieme al commesso, hanno un apprezzamento sociale assai scarso, peraltro agli occhi degli stessi lavoratori che svolgono queste mansioni. Eppure, si tratta di occupazioni e funzioni in diversi casi ancora oggi fondamentali, spesso ricercate e talune ben remunerate, ma che conoscono una scarsità nella disponibilità, in particolare fra le giovani generazioni.
La questione è sfaccettata. Per un verso, c’è un problema di valorizzazione economica e di trattamenti per una parte di questa platea di lavoratori: occupazioni sottopagate, orari eccedenti, precarietà in particolare nei settori del terziario, sono fattori che non incidono favorevolmente nell’attrarre persone e nella valutazione sociale di talune professioni. In questi casi, si tratta di temi di natura regolativa e contrattuale da allineare a standard minimi. Per altro verso, si pone la questione degli aspetti qualitativi su cui le persone mettono oggi l’accento. La prefigurazione di un percorso di formazione e di progressione di carriera, la qualità degli ambienti di lavoro, le possibilità di realizzare un buon work-life balance, rappresentano aspetti dirimenti nella scelta di un lavoro. Non è più sufficiente, come poteva accadere un tempo, offrire “un posto di lavoro e un salario” per essere attrattivi. Oltre a quelli servono altri fattori più squisitamente qualitativi per rendere appetibile un’occupazione.
Come rimarca la ricerca di Community Research&Analysis per Federmeccanica, confrontando le due generazioni estreme, i “figli” (fino a 34 anni) e i “padri” (oltre 65 anni), la classifica delle professioni è sostanzialmente simile; tuttavia, presso i giovani praticamente tutte le professioni proposte ottengono punteggi generalmente inferiori a quelli attribuiti dai senior, con un’unica eccezione: influencer e blogger. Come se la dimensione del lavoro occupasse un posto sì importante, ma non più così centrale nella vita delle persone com’era per le generazioni precedenti. In particolare, agli occhi dei “figli” le figure professionali come il contadino e l’operaio, hanno decisamente un prestigio inferiore rispetto a quello che i “padri” conferiscono.
Nello stesso tempo, però, se è vero che per i “padri” (22,8%) la reputazione dell’operaio è un po’ più elevata, rispetto ai “figli” (19,2%), tuttavia non ha una differenza così marcata. Non disponendo di ricerche analoghe svolte nei decenni scorsi, due sono le possibili spiegazioni. La prima è che anche nelle generazioni più adulte, nel tempo, il valore sociale assegnato a figure come l’operaio sia venuto affievolendosi. La seconda, più radicale, è che il prestigio attribuito nel secolo scorso riverberasse più l’immaginario di alcune élite culturali, politiche e sindacali, che il sentiment popolare. È sufficiente ricordare che solo fino a tutti gli anni 80 del secolo scorso la figura dell’operaio e della classe operaia, e più indietro nel tempo quella del contadino, costituivano un punto di riferimento centrale (nella società, nella contrattazione). «Era il secolo del Lavoro», come ricordava Aris Accornero. Nell’arco di 40 anni quelle figure hanno conosciuto una progressiva erosione del loro valore sociale: lo status del lavoro manuale è crollato.
Una conferma viene dall’esame delle risposte offerte al prestigio goduto dalle diverse professioni sulla base dell’attività lavorativa svolta.
In primo luogo, nel complesso, possiamo osservare come la classifica mantenga sostanzialmente lo stesso ordine rispetto alla media della popolazione. Tuttavia, gli attivi attribuiscono mediamente un prestigio leggermente inferiore alle diverse professioni, in una sorta di maggiore disincanto verso il loro apprezzamento.
In secondo luogo, le valutazioni degli stessi lavoratori manuali sulla figura operaia sono leggermente migliorative (23,5%) rispetto alla media della popolazione (20,8%) e di impiegati (15,6%) e imprenditori (16,7%). Quindi, chi svolge una mansione manuale ha un apprezzamento più elevato rispetto agli altri. Ciò non di meno, non è così cospicuo come ci si sarebbe potuto attendere. Un simile esito conferma, da un lato, il minore valore attribuito al lavoro manuale e operaio. E, dall’altro, racconta che l’enfasi assegnata a suo tempo probabilmente era attribuita più a una rappresentazione sociale che a un reale apprezzamento da parte dei lavoratori: aveva una valenza ideologica più che reale.
C’è qualcosa di nuovo oggi nel lavoro (manuale), che però non sa d’antico: è un problema definitorio. Continuare a descrivere i lavori (operaio, impiegato) odierni con le categorie novecentesche genera un effetto di «strabismo sociale». Cosa significa oggi concretamente fare l’operaio in un’azienda metalmeccanica che adotta sistemi digitali e il 4.0? Quella definizione è in grado di descrivere e prefigurare la mansione? Esiste ancora una reale differenza fra lavoro «manuale» e «intellettuale»? Diversamente da alcuni decenni addietro, nessuno ambisce ad andare a fare l’operaio in una «fabbrica». Perché «operaio» e «fabbrica» evocano lavori faticosi, ambienti sporchi e rumorosi. Come dimostra l’elencazione raccolta nella ricerca di aggettivi collegati al termine «industria», complessivamente la parte più rilevante degli interpellati presenta attributi negativi e incerti. Anzi, più vergato è «non so». Come se l’industria fosse un elemento uscito dall’orizzonte cognitivo di una parte rilevante della popolazione e non si sia più in grado di descriverla. È diventata, la fabbrica, una terra incognita. Cercare «nomi» nuovi per i nuovi lavori e i suoi luoghi rappresenta una sfida per adeguare la realtà alle rappresentazioni sociali. Soprattutto perché, in questo contesto, sono proprio le rappresentazioni sociali più spesso a definire la realtà.
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