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Lo zar Boris allucinato come il Macbeth di Verdi

Il direttore. La scelta di proporre la prima versione dell’opera, più violenta e sorgiva, nell’edizione critica di Evgenij Levašev. Nella partitura aggiunte 23 battute inedite tra la scena dell’incoronazione, il risveglio e il sogno di Grigorij

di Riccardo Chailly

«Boris Godunov». L'opera su libretto di Musorgskij dal dramma omonimo di Puškin con la regia di Kasper Holten e le scene di Es Devlin

4' di lettura

Boris Godunov è titolo profondamente scaligero. Grazie a un’intuizione di Toscanini, che lo volle nel 1909 e lo diresse per cinque stagioni in oltre trenta recite dal 1922. Delle ventisei produzioni scaligere del Boris mi preme ricordare lo spettacolo di Ljubimov con Nicolai Ghiaurov diretto da Claudio Abbado, che per la prima volta inaugurò la stagione nel 1979: spettacolo che conosco bene poiché ero stato assistente di Abbado. Questa è dunque, oltre quarant’anni dopo, la seconda inaugurazione con il Boris, peraltro pienamente in linea con quella della scorsa stagione. C’è infatti una relazione profonda tra il Boris e il Macbeth di Verdi, la cui seconda versione andò in scena pochi anni prima del Boris. Ci si potrebbe perfino domandare se Musorgskij non abbia scritto il suo capolavoro avendo presente il Macbeth.

L’allestimento che proporremo presenta sul piano musicale due peculiarità: la scelta della prima versione dell’opera, l’Ur-Boris, più violenta e sorgiva, e, novità assoluta per la Scala, la proposta dell’edizione critica curata da Evgenij Levašev. La ricerca musicologica ha restituito 23 battute di musica mai sentita prima, tra la scena dell’incoronazione, il risveglio e soprattutto il sogno di Grigorij. Sono dettagli, ma è musica audace, che talora sembra scritta da Berg.

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Al di là di questi passi inediti, credo sorprenderanno lo spettatore l’azzardo, la modernità graffiante di una partitura del 1869 che ancora oggi dimostra una freschezza, un’abrasività e una provocazione che continua a sbalordire. Non a caso fu rifiutata dalla commissione dei teatri imperiali preposta alla programmazione. E non è un caso se la revisione di Rimskij-Korsakov abbia addolcito, reso più eufonica, specie nell’armonia, una musica contraria ai canoni classici.

In questi giorni di prove percepisco quotidianamente negli interpreti, nell’orchestra e nel coro l’emozione per l’impatto di un simile capolavoro sul palcoscenico, se proposto da un cast eccellente qual è quello che abbiamo fortunatamente a disposizione. Dicevo, un’orchestra “provocatoria”. Musorgskij non perde occasione per evidenziare il significato del testo, per potenziarlo con un gusto quasi espressionistico. Solo la settima e ultima scena dell’opera (che è in un formato compatto, un paio d’ore appena, rispetto alla versione che Musorgskij preparerà in seguito) è costellata da momenti straordinari: ad esempio, per esprimere l’odio per il falso Dimitri, la musica mima cromaticamente un serpente insidioso e traduce l’astio popolare nell’ossessivo fortissimo degli strumentini sull’intervallo proibito di tritono; d’altro canto una ninna nanna dei flauti sugli archi in sordina evoca le sfere celesti, mentre nel finale, quando Boris morente invita al perdono, si libra un tema che potremmo dire “della redenzione”, possibile solo al limitare della morte. Per questo momento, per certi aspetti il vertice dell’opera, ho curato particolarmente il rullo di timpano che lentamente si spegne, un colpo di genio molto poetico che prolungherò con una corona verso l’infinito.

Il Boris propone una grande varietà di accenti e atmosfere. Pensiamo alla scena nella locanda, che squarcia la tinta complessivamente scura del dramma. Entrano in gioco ritmo e tono della commedia, Musorgskij vuole provocare il sorriso dello spettatore, dopo il tetro racconto di morte della scena prima. Pensiamo alla parte dell’Ostessa, che, con le altre parti femminili, si contrappone alle molte voci virili. Ma anche alla coppia Varlaam-Misail, che non può non far pensare a Bardolfo e Pistola del Falstaff, e chissà che non ci abbia pensato lo stesso Verdi. Tra l’altro, Musorgskij affida a Varlaam l’unica melodia popolare autentica dell’opera: le altre – salvo la melodia innodica della scena dell’incoronazione, nota già dal Settecento – sono originali, rielaborate da Musorgskij, alfiere di quel nazionalismo pacifico interessato alla riscoperta delle proprie radici culturali, sul modello del melos slavo.

Per il Boris occorre un’interpretazione magistrale. In questo allestimento abbiamo la fortuna di avere Ildar Abdrazakov, grande cantante dalla presenza scenica in grado di catalizzare l’attenzione di duemila persone. Lo vedrete nella scena dell’allucinazione, in cui emerge la centralità del personaggio inventato da Puškin e valorizzata tanto bene da Musorgskij. Momento che abbiamo scelto di esaltare anche attraverso precisi movimenti scenici.

Con Abdrazakov si è approfondito il tema dell’interpretazione che il canto russo richiede, una flessibilità che rende ogni battuta diversa dalla precedente. Problema, molto distante dalla pratica dell’opera italiana, francese o tedesca, cui mi ero imbattuto nel remoto 1984 quando al Comunale di Firenze avevo diretto Boris Christoff nei Canti e danze della morte e nella scena finale del Boris (programma che riproposi due anni dopo al Comunale di Bologna).

Alla figura immensa del protagonista fa da contrappeso nel Boris il coro (magnifico il lavoro del Coro scaligero diretto da Alberto Malazzi, ma anche delle voci bianche di Bruno Casoni). Il coro è il popolo, massa informe non idealizzata di cui percepiamo umori e richieste, l’urgenza della fame e l’odio verso il falso Dimitri. Questa polarità tra dramma di un uomo e tragedia di un popolo, tragedia che plausibilmente non avrà mai fine a differenza di quanto accade a Boris, è sicuramente tra gli aspetti più affascinanti dell’opera.

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