Lockdown, quarantene e blocco dei voli: i viaggi della speranza per abbracciare il proprio figlio
Le conseguenze dell'emergenza sanitaria mondiale complicano il cammino delle coppie che hanno adottato un bambino e di chi si è affidato a un'agenzia di madri surrogate
di Elena Montobbio
8' di lettura
Quanto si aspetta un bambino? Nove mesi? Mica sempre. Salgono a quarantatré se si sceglie l'adozione internazionale e a quindici se ci si affida a un'agenzia negli Stati Uniti per avere un bimbo da madre surrogata. Ma la pandemia ha dilatato le attese. Growing Generations è nata a Los Angeles ventiquattro anni fa, inizialmente con l'intento di supportare la comunità gay americana attraverso la Gestazione Per Altri (GPA). Oggi è la più grande agenzia di maternità surrogata e ovodonazione degli Usa, e lavora tanto con coppie omosessuali quanto con quelle etero, o con i single dal forte desiderio di genitorialità.
I numeri dimostrano che non sono poche le persone ad aver apprezzato questo servizio; se nel 1996 ancora nessun bambino aveva visto la luce grazie a Growing Generations, nel 2004 erano già 297, e 1.813 nel 2019. Con il passare del tempo la clientela è diventata internazionale: le future mamme e i futuri papà arrivano dai cinque continenti e da circa novanta Paesi. Ed ecco qui l'inghippo. Il Coronavirus ha chiuso tutti in casa, bloccato le attività economiche e serrato i confini nazionali: come si fa a viaggiare e andare a prendere quel figlio che sta per nascere dall'altra parte del mondo?
«Certamente questa situazione senza precedenti ha avuto un forte impatto», dichiara a IL Jessica Junyent, vicepresidente per lo sviluppo internazionale di Growing Generations. «Prima dell'emergenza Covid-19, i genitori arrivavano negli Usa circa una decina di giorni prima della data presunta del parto. E non mancavano le coppie che chiedevano di essere avvisate quando la donna entrava in travaglio per scapicollarsi sul primo aereo disponibile». Dai primi di marzo, l'agenzia di Los Angeles chiede invece di arrivare almeno un mese prima del giorno in cui è prevista la nascita. «Chi viene dall'area di Schengen, Regno Unito, Irlanda, Cina e Iran dovrà inoltre affrontare una doppia quarantena. La maggior parte delle coppie», spiega Junyent, «sceglie di passare i primi 14 giorni di isolamento in Canada o in Messico. Una volta entrati nel nostro Paese, dovranno passare altre due settimane senza contatti con l'esterno nella città in cui il bambino verrà al mondo. Pena, il non poter entrare in ospedale».
È il caso di due clienti di Andorra: dopo la quarantena a Toronto, hanno volato a Chicago e da lì a Las Vegas per altre due settimane di reclusione. La stessa trafila andrà affrontata nel loro Paese, quando rientreranno con il figlio. In totale, quasi una cinquantina di giorni rinchiusi tra le quattro mura domestiche o alberghiere. Diverso, invece, l'iter per due papà cileni: hanno potuto prendere un aereo diretto da Santiago a Miami e da lì ad Atlanta per la quarantena necessaria prima di incontrare il figlio. Entrambi i casi sono stati fortunati, fa sapere Jessica Junyent: non ci sono stati parti prematuri e i genitori sono arrivati per la nascita.
Oltre ad essersi allungati i tempi “prima”, si sono allungati anche quelli “dopo”. La prassi vuole che la permanenza negli Usa con il neonato sia di circa un mese: per ragioni sanitarie (si sconsigliano i voli lunghi a poche settimane di vita) e per avere il tempo di avere i documenti per l'espatrio. «Una volta prodotto il certificato di nascita con trascritto il nome del padre biologico in caso di coppie omosessuali, o di entrambi per le coppie etero, si può ottenere il passaporto americano». Claudio Rossi Marcelli, giornalista e scrittore che si occupa da anni di famiglie e diritti civili, nel libro Hello Daddy! (Mondadori) racconta la preoccupazione di rimanere con due gemelle appena nate (le sue prime due figlie avute assieme all'ex compagno) in un Paese straniero e non sapere come districarsi tra gli incartamenti della burocrazia. Nessun problema: ci sono agenzie legali che si occupano di tutto, e in tre giorni ti fanno trovare sul tavolo passaporti nuovi fiammanti.
«In queste settimane, gli uffici stanno lavorando con personale e risorse ridotte. Si possono emettere passaporti nuovi solo in caso di emergenza», aggiunge Junyent, «e questi di cui stiamo parlando non rientrano in questa categoria. Se fino allo scorso marzo i tempi medi per avere un documento andavano da una settimana a una decina di giorni, ora può volerci un mese. Consigliamo quindi ai nostri clienti di rivolgersi anche al loro consolato per sollecitare il doppio passaporto. A volte ci mettono meno dall'estero». Insomma, il primo documento che arriva dà l'accesso al volo per tornare a casa e iniziare una nuova vita.
Facendo due calcoli, se prima era sufficiente stare lontano dal proprio Paese per circa un mese, ora ne vanno considerati almeno due o tre. Ma non tutti possono assentarsi per così tanto tempo. E allora come si fa? C'è chi sceglie di fare a turno, viaggia prima un genitore e poi l'altro; chi manda la mamma, una zia, una sorella. I più fortunati hanno parenti o amici negli Usa: con una delega firmata dai genitori, l'ospedale è autorizzato a dar loro i bambini affinché se ne occupino aspettando l'arrivo della famiglia. In casi estremi, si può anche rivolgersi a un'infermiera neonatale che alloggerà con il piccolo in un hotel nell'attesa dei genitori (ottocento, mille dollari al giorno la tariffa richiesta). È autorizzata anche a portare il bambino all'estero tra le braccia della nuova famiglia, ma questo non è ancora mai accaduto.
Jessica Junyent ci racconta anche come le emergenze portino alla luce l'umanità delle persone: «Un'assistente sociale di Las Vegas mi ha fatto commuovere. Mi ha assicurato che l'ospedale in cui lavorava si sarebbe fatta carico, in via del tutto eccezionale, dei bambini nel caso in cui i genitori non fossero arrivati in tempo per restrizioni dovute alla pandemia. Anche quando le ho spiegato che il ritardo sarebbe potuto essere di un mese, la sua disponibilità non è mutata».
Assieme ai tempi, quello che rischia di lievitare sono, quindi, anche i costi. Che già non sono irrilevanti: da un minimo di 135/150 mila dollari a 200/250 mila, se è necessario ricorrere a una donatrice di ovociti. Perché la donna che porta avanti la gravidanza non è mai la madre biologica dei bambini. A Growing Generations ci tengono molto a tutti gli aspetti psicologici che una vicenda così delicata comporta. «Ogni anno, riceviamo la richiesta per diventare madri surrogate da circa 15mila donne. Noi ne accettiamo meno dell'uno per cento. Le condizioni sono chiare e il percorso è accurato: devono essere già mamme, sane, con una situazione economica non critica e, ovviamente, essere a loro agio nello stato fisico e ormonale provocato da una gravidanza. Molte sono sensibili al tema dell'infertilità, perché hanno avuto parenti o amici che ne hanno sofferto e vogliono regalare questo sogno – che loro già conoscono – a qualcun altro», chiarisce Junyent. Percepiscono un compenso che va da 47 a 60mila dollari: dipende dal tipo di parto (gemellare o meno), dallo Stato in cui vivono (a causa delle alte richieste, il compenso in California è maggiore) e se sono impiegate o casalinghe (nel caso in cui debbano perdere giorni di lavoro, l'agenzia si occupa di versare un compenso extra).
L'unico risparmio per i genitori in tempi di Coronavirus, potrebbe essere rappresentato dalla riduzione nel numero dei viaggi effettuati negli Stati Uniti dal momento della stipula del contratto a quello della nascita. Normalmente, in questo arco di tempo è previsto almeno un incontro per l'ecografia morfologica. Nei nove anni passati a lavorare per Growing Generations, Jessica Junyent ha conosciuto solo una coppia di argentini che si sono presentati ogni mese all'appuntamento dal ginecologo. Il resto delle coppie compie tre viaggi. Che cosa succederà nei prossimi mesi? La situazione è monitorata ogni giorno da un avvocato esperto di immigrazione. Perché i veri problemi li incontrano le coppie che hanno un figlio nel secondo o terzo trimestre della gravidanza. Chi si rivolge ora a un'agenzia, dovrà aspettare circa 15 mesi per poter abbracciare il proprio bimbo: un tempo abbastanza lungo da far sperare di essere fuori dall'emergenza sanitaria. E chi stava per avviarsi alla fase dell'impianto degli embrioni? Tutto fermo, si rimanda a data da destinarsi, la pandemia non lo consente.
Per le coppie che hanno un figlio già nato (o in procinto di nascere) da madre surrogata, è tutto bloccato anche in Ucraina. Negli scorsi giorni, sono circolati i filmati di alcune agenzie locali che ritraevano decine di bambine dentro uno dei tanti alberghi chiusi a causa del Covid-19. La Spagna ha organizzato un volo di Stato per tutti i neogenitori, l'Italia al momento tace.
Lo stallo coinvolge, infine, tutti quei genitori (nel caso dell'Italia, sempre coppie etero e sposate da almeno tre anni) che stavano per partire e raggiungere i loro figli dopo aver affrontato il lungo complesso processo per l'adozione all'estero. Paola Crestani, presidente di CIAI (Centro Italiano Aiuti all'Infanzia, un'associazione che dal 1968 si occupa anche di adozioni internazionali e che ha rilasciato un comunicato stampa che denunciava quanto sta accadendo in Ucraina ai bambini nati da madre surrogata, una pratica che non condividono), ci spiega che la situazione è molto delicata. Soprattutto per chi aveva l'abbinamento con un bambino, chi ha avuto modo di parlarci via Skype, chi conosce il suo volto e per i bimbi che stanno aspettando i nuovi genitori. Per queste famiglie, l'associazione organizza incontri in videochiamata con una psicologa perché non si sentano abbandonate in un momento di grande incertezza e delusione.
«In alcuni Paesi», racconta Crestani, «sono previsi più viaggi, ci sono quindi bambini e genitori che già si sono incontrati e che aspettavano solo la sentenza definitiva del Tribunale dei Minori per poter iniziare un nuovo percorso tutti assieme». CIAI opera in Colombia, Cina, India, Tailandia, Burkina Faso e Costa d'Avorio. Il 30 aprile erano tre le coppie con un abbinamento per il Burkina Faso, la Colombia e l'India, una coppia stava per partire per la Costa d'Avorio e una per la Tailandia. Undici famiglie in totale in attesa.
Marco Rossin, responsabile italiano per le adozioni internazionale di AVSI (un'organizzazione non profit nata nel 1972 che realizza progetti di cooperazione e sviluppo e aiuto umanitario in tutto il mondo) racconta di situazioni simili anche in Lituania, Russia, India, Romania e Colombia. Quando, l'8 marzo scorso, la Lombardia e l'Italia intera sono state dichiarate zona rossa, AVSI aveva due coppie in procinto di partire che sono rimaste bloccate, e cinque all'estero che hanno faticato a rimpatriare.
In totale, erano quaranta le famiglie italiane che si trovavano fuori dai confini nazionali, alcune già con sentenza del Tribunale dei Minori, altre in attesa di ottenerla. Gli ultimi dati ufficiali e disponibili sono quelli della Commissione Adozione Internazionali (CAI): sono 25 le coppie che rimangono all'estero, la maggior parte con i bambini a loro abbinati. Stanno compiendo il periodo di integrazione in attesa della sentenza di adozione. Altre sono già in possesso della sentenza e stanno attendendo di poter trovare un volo di rientro, tenuto conto del blocco pressoché totale del traffico aereo. «Al momento non vi sono ipotesi certe, ma ciascuna coppia è segnalata e in contatto con le rappresentanze diplomatiche italiane nei vari Paesi», riporta il documento della Commissione consultabile online. Sono note le rimostranze delle coppie che si trovano a Bogotà e che stanno chiedendo l'intervento della Farnesina con un volo umanitario per essere rimpatriati al più presto, dopo ormai mesi di permanenza.
Le maggiori difficoltà di rientro le sta affrontando, infatti, chi si trova in continenti diversi da quello europeo. Unica consolazione, quella di poter essere assieme ai loro figli. Rossin racconta la storia di una coppia adottiva che è riuscita ad affittare una macchina in Lituania per raggiungere la capitale della Lettonia, prima che anche quel confine venisse chiuso; Russia e Polonia avevano già dato ordine di bloccare le frontiere. Da Riga hanno poi preso un volo con il figlio per l'Italia.
Dalla Romania sono rientrati in fretta e furia due genitori dopo aver conosciuto quello che diventerà il loro bimbo. Stavano aspettando la conclusione della procedura di adozione: niente, tutto bloccato. Marco Rossin è costantemente in contatto con tutti i Paesi in cui AVSI opera per seguire le diverse fasi dei lockdown, le regole sulle quarantene e le limitazioni negli spostamenti. «Secondo una nostra stima, i tempi si allungheranno di due, sei mesi. Dipende da come andrà l'epidemia». Ci sono Paesi come la Lituania che si apprestano a riaprire i tribunali e che spingono per fissare le udienze. Ma che cosa succede se non ci saranno voli disponibili? «Se una famiglia non potesse presentarsi in udienza, l'intero fascicolo andrebbe ripresentato. Bisogna muoversi con cautela», conclude Rossin.
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