Logistica, l’impatto di Brexit è ben più articolato di una fila di Tir
La semplificazione delle procedure doganali rischia di avere ripercussioni sul fronte della sicurezza dei prodotti
di Claudio Perrella
I punti chiave
- A gennaio crollo di scambi e prezzi
- Colpiti soprattutto i beni deperibili
- Si profilano criticità in relazione a standard e brevetti
3' di lettura
A tre mesi dalla Brexit, è possibile fare un primo bilancio sul suo impatto, che ha coinvolto in particolar modo il settore della logistica.
Innanzitutto, è necessario evidenziare che se il blocco totale di tir alle frontiere che si temeva nell’immediato post-Brexit non si è verificato, è soprattutto perché le incertezze sulle procedure doganali hanno indotto molte imprese a differire le spedizioni, oppure ad anticiparle a novembre e dicembre, sulla base di analisi dei rischi e piani di business continuity studiati in precedenza proprio per prevenire il peggio.
A fare le spese della Brexit sono stati soprattutto i prodotti britannici. Il mese di gennaio, in particolar modo, ha fornito in merito dati piuttosto rilevanti: un rapporto della British Road Haulage Association (Associazione britannica del trasporto su strada) ha sottolineato come il volume delle esportazioni che passano attraverso i porti britannici verso l’UE sia diminuito del 68% a gennaio 2021 rispetto a gennaio 2020.
Tra le categorie più colpite, quelle dei prodotti deperibili: il Financial Times evidenzia un crollo fino all’80% del prezzo di esportazione del pesce di qualità più pregiata dai porti inglesi verso l’Europa, per il timore che il prodotto subisse ritardi o deterioramenti. Inoltre, circa il 65%-75% dei veicoli giunti dall’UE sono tornati indietro vuoti perché privi di merci. Anche le esportazioni dall’Europa verso il Regno Unito hanno subito un forte impatto: le dogane europee sono molto più severe di quelle inglesi, e gli ostacoli burocratici ed amministrativi continuano a rallentare se non addirittura a frenare gli scambi commerciali.
Da un’analisi di Coldiretti, ad esempio, sulla base dei dati Istat relativi al commercio estero nel mese di gennaio 2021, è emerso che le esportazioni dalla sola Italia in Gran Bretagna sono calate del 38,8%: un dato piuttosto significativo, considerata la diretta dipendenza dello Stato britannico dalle merci europee per il fabbisogno alimentare.
La situazione non sembra andare verso prospettive migliori, in quanto la semplificazione delle procedure doganali rischia di avere ripercussioni sul fronte della sicurezza dei prodotti. Se da un lato l’accordo sugli scambi e la cooperazione di fine dicembre, che non prevede dazi nell’export verso il Regno Unito a fronte di una autocertificazione di origine delle merci da un Paese dell’Ue, riduce di molto gli adempimenti burocratici, dall’altro sta emergendo il rischio che l’assenza di adeguati controlli sulla veridicità delle autocertificazioni favorisca l’ingresso nell’Unione Europea di merce proveniente da mercati per i quali invece i dazi sono previsti. In prospettiva, tuttavia, potrebbero verificarsi sensibili ritardi quando il Regno Unito introdurrà i controlli completi sulle importazioni di merci dall’Ue, il prossimo 1° luglio.
Si profilano poi criticità in relazione a standard e brevetti: per i brevetti sarà richiesta la doppia registrazione, e forti duplicazioni e appesantimenti per gli standard qualitativi e di sicurezza, con il rischio che si creino barriere non tariffarie. Rimane infine la criticità costituita dal sistema adottato in Irlanda del Nord, che si pone a metà tra Regno Unito e Unione Europea. Diverse aziende italiane stanno già progettando di stabilirvi i propri depositi di merci, e transitare da quella zona eludendo la farraginosità burocratica che caratterizza attualmente il canale della Manica.
Le complicanze burocratiche comportano criticità anche per quanto riguarda standard e brevetti: per i brevetti sarà richiesta la doppia registrazione e forti duplicazioni e appesantimenti per gli standard qualitativi e di sicurezza, con il rischio che si creino barriere non tariffarie. La supply chain delle imprese verrà dunque messa a dura prova, con la necessità di riesaminare i termini di resa pattuiti.
Il ricorso ad un Incoterms del gruppo D (che pone a carico del venditore oneri e rischi del trasporto fino a destino) nelle esportazioni con controparti con sede nel Regno Unito in particolare si sta rivelando più impegnativo del previsto, ponendo a carico dei venditori non solo il costo di operazioni doganali ora più lunghe e farraginose, ma anche il rischio di ritardi nell’esecuzione del trasporto e nella consegna della merce.
Va considerato che gli Incoterms, oltre a non prevedere nulla con riguardo al trasferimento della proprietà della merce venduta, non contemplano neppure le conseguenze di eventuali ritardi, che restano disciplinate dunque dalla legge applicabile al contratto.Queste ultime settimane hanno, inoltre, visto la intensa rinegoziazione dei contratti di prestazione dei servizi logistici (i cd. Service Level Agreements, che contengono clausole di valutazione della performance (KPI - Key Performance Indicators) di regola basati sulla tempestività nell’esecuzione dei trasporti e nelle consegne, e l’applicazione di penali.In conclusione, stanno già chiaramente emergendo le criticità che era possibile prevedere al momento della conclusione di un accordo raggiunto in extremis, frutto di un compromesso faticoso, e privo di molti punti essenziali.
Socio ANRA, l'associazione che dal 1972 raggruppa i risk manager e i responsabili delle assicurazioni aziendali
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