Lombardia, le 5 inchieste che fanno tremare la giunta Fontana
Al lavoro sono soprattutto le procure di Milano, Bergamo e Pavia: si va dai test sierologici alla fornitura di camici fino alla mancata chiusura della Val Seriana
di Sara Monaci
5' di lettura
Ci sono almeno cinque inchieste che mettono in difficoltà la Regione Lombardia.
Qualcuna dal contenuto più “giudiziario” - quella sulla fornitura dei test sierologici e sul conflitto di interesse relativo alla fornitura dei camici. Altre che guardano ad una ricostruzione più “storica” di quanto avvenuto durante l’emergenza coronavirus, - la mancata chiusura della Val Seriana e la diffusione del virus nelle residenze per anziani - nelle quali non sarà semplice arrivare a circoscrivere le responsabilità.
Infine ci sono le indagini, ancora di tipo conoscitivo, sulla costruzione dell’ospedale negli ex padiglioni della ex Fiera di Milano, per il quale il nucleo Tributario della Gdf sta scandagliando spese e consulenze.
Tutte quante, sommate, rappresentano una vera e propria insidia per la giunta guidata da Attilio Fontana: un terreno scivoloso sul quale dovrà muoversi per recuperare la possibile perdita di consenso di questi mesi.
Le indagini a carico di Fontana
Il governatore risulta direttamente indagato per la vicenda della fornitura di camici da parte della società Dama, partecipata dal cognato Andrea Dini e dalla moglie Rebecca, che, in conflitto di interessi, doveva fornire 75mila camici alla Regione Lombardia per 500mila euro, in piena emergenza coronavirus. L’accusa rivolta a Fontana è di f rode in forniture pubbliche, approfondita dalla procura di Milano.
Ma a metterlo in imbarazzo c'è soprattutto un tentato versamento di denaro proveniente da un conto svizzero. Conto che appartiene proprio a Fontana, precedentemente intestato alla madre, per il quale nel 2015 aveva fatto uno scudo fiscale per 5,3 milioni.
Dopo un'intervista di Report Fontana cercò di fare un bonifico da 250mila euro alla Dama per “ricompensare” la società del mancato incasso per 49.353 camici e 7mila set già consegnati, visto che il governatore chiese di sospendere la fornitura trasformandola in una donazione, temendo un danno reputazionale legato appunto al conflitto di interessi. Tuttavia la milanese Unione Fiduciaria a cui si era rivolto bloccò il pagamento perché in base alla normativa antiriciclaggio non vedeva una causale o una prestazione coerente con il bonifico, disposto da un soggetto “sensibile” come Fontana. Per questo è partita una “Sos-Segnalazione di operazione sospetta” all'Unità di informazione finanziaria di Banca d'Italia, che la girò alla guardia di finanza e quindi alla Procura di Milano.
A complicare la posizione di Fontana c'è la sua dichiarazione di quei giorni, in cui sosteneva di non saperne nulla.
L'ipotesi dunque è che Fontana volesse proseguire con la fornitura in conflitto di interesse e che si sia fermato solo perché la storia poteva venire a galla.
La scelta dei test sierologici
L’inchiesta è della procura di Pavia, ma il faro è stato acceso anche da quella di Milano. La Regione Lombardia non usò nel mese di marzo i test sierologici, ritenendoli scarsamente affidabili. Poi l’11 aprile scelse, con affidamento esclusivo, la Diasorin, azienda di Saluggia, che nel frattempo aveva ottenuto un accordo esclusivo con il Policlinico San Matteo di Pavia per sviluppare la ricerca.
La Diasorin ebbe la certificazione CE solo il 17 aprile, per la fornitura di 500mila test da 2 milioni di euro. Il prezzo era pari a 4,5 euro l’uno. Poi la Regione, dopo il ricorso di una società concorrente, ha aperto una gara, aggiudicata alla Roche, che si è fatta pagare 1,5 euro a pezzo. E intanto la Diasorin non ha più completato la fornitura, ferma a 100.020 test a maggio. Il susseguirsi delle decisioni sembrano poco coerenti.
L’accordo tra l’ente sanitario e la Diasorin potrebbe costituire, per gli inquirenti pavesi, peculato e turbativa d’asta,e vedono già indagate otto pers one, vertici della società e del San Matteo, accusati di un ingiusto vantaggio all’azienda rispetto alle concorrenti.
La procura di Milano sta guardando a quanto avvenuto in Regione, con la scelta della Diasorin senza gara e in una fase in cui esistevano già sul mercato test certificati e più economici.
Il mancato lockdown nella bergamasca
La vicenda la sta ricostruendo la procura di Bergamo, e non sarà facile risalire la catena di responsabilità, anche perché furono probabilmente dovute a scelte politiche e alla complessità di circoscrivere le competenze fra Regione e Governo.
Tra il 27 febbraio e il 3 marzo 2020 i contagiati e soprattutto i morti in Val Seriana - partendo dai due comuni di Nembro e Alzano - stavano salendo esponenzialmente, più che in altre province. Il 4 marzo si registra il seguente bollettino: 423 contagiati (il doppio rispetto al giorno prima), su 1.820 in tutta la Lombardia, con 73 decessi.
Vengono dunque inviati dall’Unità di crisi lombarda i dati all’Iss, con richiesta di intervento. L’Istituto superiore della sanità conferma il 5 marzo il problema e chiede di chiudere la Val Seriana. Vengono preparati i militari, che arrivano per richiesta del ministero degli Interni ai confini dei due comuni.
Il 6 marzo intanto si registrano qui 135 decessi, su 309 totali in Italia. Ma il Comitato tecnico scientifico avvisa il premier Giuseppe Conte che la situazione sta degenerando in tutta la Lombardia. Così il 7 marzo arriva il noto Dpcm sulla zona arancione in regione e i militari tornano indietro. Il resto è storia: l’11 marzo tutta Italia diventa zona rossa, per evitare le “fughe”. La mortalità nella bergamasca è salita del 600% rispetto agli anni precedenti.
Le morti nelle Rsa
Sono aperti molti fascicoli, in varie procure. Fra tutti spicca quello di Milano relativamente al Pio Albergo Trivulzio, dove la mortalità è salita più del doppio rispetto allo scorso anno. Sono indagati per omicidio colposo i vertici della società (e in generale ci sono decine di indagati in tutta la Lombardia).
Per quanto riguarda la Regione Lombardia, sotto la lente degli inquirenti ci sono tre delibere regionali, emanate tra l’8 e il 30 marzo. In particolare la prima, dell’8 marzo, chiedeva di poter inserire, su base volontaria, malati Covid nelle Rsa; la seconda rendeva possibili i finanziamenti per ogni paziente in più accettato (150 euro al giorno a testa) e la terza bloccava le visite ai partenti.
Poi si indaga sulla mancanza di dispositivi medici: dalle ricostruzioni emerge che le mascherine siano state usate poco, in quanto la direzione chiedeva di non farne uso per non spaventare i pazienti. È emersa anche una circolare della Regione che diceva di limitarne l’impiego per via della difficoltà a reperirle sul mercato.
Infine, l’ospedale nel quartiere Portello di Milano, realizzato dalla Fondazione Fiera Milano. Si tratta in questo caso di donazioni private, pari a 22 milioni, ma gli inquirenti vogliono approfondire, dopo un esposto dei Cobas, se i costi sostenuti siano compatibili con le attrezzature acquistate, finalizzate alla realizzazione di 220 posti letto per la terapia intensiva.
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