Londra zoppica verso l’uscita
di Leonardo Maisano
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La liturgia dell’addio si consuma anche negli eccessi scenografici di un lessico ridondante. Il Great Repeal Bill cala oggi su Westminster per la presentazione ufficiale ai nuovi parlamentari, in vista di un dibattito che maturerà in autunno. La legge del Grande Rifiuto è in effetti un pezzo straordinario di legislazione che cancella la forza normativa dello European Act firmato da Londra nel 1972 in vista dell’adesione all’allora Cee. Quando i Comuni l’avranno votata decadranno le norme previste dall’acquis communautaire, ma al tempo stesso Londra le farà integralmente sue. Migliaia di leggi e regolamenti europei diverranno, così, britannici, come se Londra avesse mimato gli atti di Bruxelles. Una mossa prevista che semplificherà – o meglio renderà meno impossibile – la Brexit, lasciando irrisolti tutti i problemi noti, dal destino della City a quello dei cittadini Ue.
Le incognite del negoziato, dunque, non cambiano. Il copia-incolla che Londra s’appresta a fare della legislazione Ue sarà solo temporaneo perché le norme adottate dal Regno Unito, come conseguenza ultima del Great Repeal Bill, cambieranno per volontà della Camera dei Comuni, ma con una tempistica sostenibile e molto spesso grazie alla legislazione secondaria.
A gestire la transizione, tuttavia, potrebbe non essere Theresa May. La premier gira la boa del primo anno a Downing Street con la ragionevole certezza di avere davanti a sé una prospettiva di governo limitata. L’odore del sangue acceca il Tory party, uso al complotto repentino. Accadde anche a Margaret Thatcher caduta sull’impopolare balzello della poll tax, nonostante vantasse un palmares assai diverso da quello che può mettere in campo Theresa May. La sfida potrebbe maturare prima della party conference di settembre e le voci indicano il ministro per la Brexit David Davis fra i papabili, al fianco del ministro degli Esteri, Boris Johnson, nonostante sia caduto vittima dei suoi stessi eccessi capaci di sfregiare l’immagine che impone il ruolo di diplomatico supremo.
Sull’altro côté degli aspiranti, quello dei soft brexiter, siede il Cancelliere dello Scacchiere Philip Hammond, l’unico nella prima fila del governo che può dire di essere stato premiato dalle elezioni dell’8 giugno. È il campione dei moderati del partito da quando la vittoria-sconfitta di Theresa May (alle politiche i Tory sono risultati primi, ma senza maggioranza parlamentare), se letta come un atto di ribellione popolare alla hard Brexit, lo ha rinforzato. La sua dottrina, nel segno di un ritrovato pragmatismo – economy first – è sposata dalla City e dalle imprese e mette sotto pressione la triplice linea Maginot su cui s’è sempre attestato il governo britannico: limiti rigidi all’immigrazione dalla Ue; no all’indennizzo fra 60 e 100 miliardi di euro chiesto da Bruxelles; ritorno alla piena sovranità nazionale e relativa esclusione dal Regno dei poteri della Corte europea di giustizia. Per Londra quest’ultimo passaggio si sta rivelando di straordinaria complessità su capitoli specifici. Il caso dell’Euratom, regolatore europeo del nucleare, è illuminante. Proprio pensando alle conseguenze disastrose di un’uscita scomposta da Euratom, il governo ha riconosciuto che in una «fase transitoria» la Corte europea potrà essere ancora condivisa da Londra e Bruxelles.
È il primo segnale evidente del rinculare di Londra da tanta, millantata fermezza. La hard Brexit, l’approccio ideologico all’addio da Bruxelles, è stata fulminata dalle elezioni, spianando la strada a una visione più realistica. Il grado di pragmatismo verso cui Londra sta avvicinandosi contempla anche la consapevolezza crescente - ancorché minoritaria nel governo e nel partito conservatore - dell’importanza di restare nel mercato interno e nell’unione doganale. Vince Cable, prossimo leader dei LibDem, arriva a dire che la sinfonia di un’economia verso un deciso rallentamento spingerà Londra a rigettare la Brexit. Possibile, non ancora probabile.
Un ruolo chiave nel decidere la rotta prossima ventura di Londra spetterà all’opposizione laburista. Il governo Tory è debole a causa dei numeri in Parlamento e a causa delle divisioni interne, Jeremy Corbyn, da una piattaforma massimalista, ha ripreso, invece, le redini del Labour e spinge per nuove elezioni politiche. Oggi, potrebbe vincere se davvero riconoscesse una realtà scomoda: su di lui e sul suo partito, l’8 giugno, è confluito il consenso di chi si oppone alla Brexit, nonostante Jeremy Corbyn sia favorevole all’addio, non diversamente da Theresa May, seppure sulla base di considerazioni differenti da quelle sovraniste care alla signora-premier. È stato molto più abile dell’ospite di Downing street nel dissimulare il suo radicalismo anti-europeo, in un partito molto meno diviso dei Tory. L’equivoco laburista complica molto lo scenario della Brexit che verrà. A semplificarlo sarà, una volta di più, la forza di un’economia che ripiega. Non crediamo, come ipotizza Vince Cable, fino al punto di innescare una rivolta popolare contro il divorzio, ma radicando nella pubblica opinione la presa di coscienza di un fatto: il prezzo della Brexit è altissimo e il primo acconto, sotto forma di una contrazione del tasso di crescita previsto, è già in arrivo.
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