Lotta alle pratiche sleali, l’industria agroalimentare: alcune norme difficili da applicare
Contratti da adeguare entro metà giugno: i produttori chiedono regole più chiare sulla determinazione dei prezzi in relazione ai costi e sulla deperibilità delle merci
di Giorgio dell'Orefice
3' di lettura
Non è mai stato semplice regolare mediante la legge il mercato. Tentare di ridurne squilibri. Non è mai stato facile in passato e non lo è oggi. Ne è una conferma l’avvio in Italia delle norme di contrasto alle pratiche commerciali sleali nel settore agroalimentare previste dal decreto 8 novembre 2021 (che ha recepito la direttiva Ue 633 del 2019). Un tema sul quale l’Italia ha fatto da apripista in Europa visto che una prima rete di sicurezza era già stata introdotta con l’articolo 62 della legge 1 del 2012.
Le nuove regole che nel nostro Paese si applicano senza limiti di fatturato dei contraenti hanno introdotto l’obbligo di contratti in forma scritta che abbiano una durata minima di un anno (tranne che per ristoranti, bar e pubblici esercizi). Escluse dalla disciplina anche le vendite ai consumatori finali. A essere vietate sono pratiche che vanno dal pagamento in ritardo all’annullamento con preavviso breve di ordini di prodotti deperibili, dal divieto di imporre prezzi inferiori ai costi alla modifica unilaterale delle condizioni di un contratto fino alla minaccia di ritorsioni commerciali. Oltre a queste condotte che rientrano nella “black list” dei comportamenti sempre off limits, le norme prevedono anche una “grey list” di pratiche che possono essere adottate se concordate tra le parti come la restituzione, senza pagamento, di prodotti invenduti o la condivisione di costi di marketing e pubblicità. Il contratto deve essere stipulato prima della consegna della merce e deve includere clausole per definire la durata, le quantità e le caratteristiche del prodotto venduto, il prezzo, nonché le modalità di consegna e di pagamento.
Il decreto è in vigore da novembre «mentre il prossimo 15 giugno – spiega Fausto Caronna, senior attorney dello studio Cleary Gottlieb che ha effettuato un monitoraggio sul sistema in Europa – scade il termine per adeguare tutti i contratti alle nuove regole. Infatti, mentre i nuovi accordi nascono nel rispetto della normativa, entro metà giugno vanno adeguati i contratti, magari pluriennali, stipulati in precedenza. Da quel momento l’intero sistema sarà a regime».
Il passaggio alla nuova regolamentazione sta tuttavia provocando qualche difficoltà all’industria alimentare, dal lattiero caseario ai salumi, dall’industria olearia a quella mangimistica fino ai cereali. In più di una filiera le nuove norme non sempre si conciliano con prassi consolidate. Un tema del quale si discuterà certamente al Cibus, dal 3 al 6 maggio a Parma.
«C'è un aspetto da chiarire – spiegano ad Assolatte – riguardo al divieto di imporre prezzi inferiori ai costi. In una trattativa diamo per scontato che se il fornitore accetta la nostra proposta i costi siano coperti. Come facciamo a conoscere la dinamica produttiva di ogni controparte? Senza contare che in un frangente come l’attuale di grande escalation dei costi energetici è possibile definire un prezzo in un contratto che nel giro di poche settimane si rivela inferiore agli oneri produttivi. E invece si corre il rischio di essere sanzionati. Occorre una forma di manleva che garantisca le parti».
E poi c’è il tema della deperibilità che oltre al comparto lattiero caseario sta mettendo in difficoltà anche quello dei salumi. «Il principale problema – spiega il presidente dell’Assica (l’associazione delle industrie dei salumi), Ruggero Lenti – è che il nuovo decreto sulle pratiche sleali lega la deperibilità dei prodotti alla shelf life, ovvero alla loro scadenza, mentre la precedente disciplina dettata dall’articolo 62 la definiva sulla base di parametri chimico fisici oggettivi. Nel caso dei salumi si tratta di prodotti che sono sì stagionati ma che una volta aperta la confezione sottovuoto diventano immediatamente deperibili». Ma soprattutto al tema della deperibilità è legato a quello sui tempi di pagamento. «La supposta vita o shelf life prolungata – aggiunge Lenti – fa slittare i termini di pagamento dei nostri prodotti da 30 a 60 giorni. Il che trasforma automaticamente un dodicesimo del fatturato delle aziende in esposizione bancaria. Un ulteriore pesante onere in un frangente di costi produttivi in rialzo».
«Siamo assoggettati alla nuova normativa a più livelli – spiegano a Federalimentare – nei rapporti con gli agricoltori dai quali acquistiamo materie prime e in quelli con la grande distribuzione alla quale parte forniamo i nostri prodotti. Qui non è in discussione la disciplina introdotta da una direttiva Ue recepita da un decreto nazionale. Ma di accompagnare un processo che si sta rivelando tutt’altro che automatico. Abbiamo effettuato un seminario sul tema a febbraio e stiamo portando avanti un lavoro insieme a Centromarca per poi avviare un confronto con le istituzioni che consenta di giungere a interpretazioni condivise che evitino conflitti e soprattutto sanzioni».
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