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Luca Guadagnino, un interior designer dietro la telecamera

Il regista italiano trasporta le sue esperienze dal grande schermo all’arredo. Fra modernismo, spazio all’ossessione per il dettaglio e all’intensità cromatica.

di Jackie Daly

Luca Guadagnino, 51 anni, nella sua Villa La Ceriana, in Piemonte. ©Andy Massaccesi

7' di lettura

Incontro il regista, sceneggiatore e produttore Luca Guadagnino al Grand Hotel et de Milan. È lo sfondo perfetto: i pavimenti in marmo del 1863, gli arredi antichi e la foresta di palme sullo sfondo della sala richiamano la grandeur malinconica dei suoi set cinematografici. Guadagnino, 51 anni, è appena arrivato da Villa La Ceriana, la sua nuova casa nella campagna piemontese (ma possiede anche un appartamento a Milano), dove si ritira a scrivere. «Per tanto tempo ho immaginato di potermi sedere da solo nel mio ufficio, alla scrivania, con la luce che entra dalle finestre, a lavorare a una nuova sceneggiatura. Volevo un posto dove poter pensare», racconta. La villa è solo uno dei progetti dello studio di architettura d'interni Luca Guadagnino, fondato nel 2017.

Per il regista, fresco di Leone d'Argento per la miglior regia ricevuto a settembre al Festival del Cinema di Venezia per Bones and All, interpretato da Timotheé Chalamet (in uscita in Italia il 24 novembre), e autore di titoli acclamati dalla critica come The Protagonists (1999), Io sono l'amore (2009), Chiamami col tuo nome (2017), Suspiria (2018), essere anche un interior designer è la realizzazione di un sogno coltivato da tempo. «Da piccolo cambiavo di nascosto la disposizione dei mobili del nostro soggiorno e poi li rimettevo al loro posto, trovavo che spostare un oggetto cambiasse totalmente lo spazio», dice della sua prima incursione in questo mondo. «Penso che avesse a che fare con il mio amore per la prospettiva. Quando ho iniziato davvero a lavorare nel design ho avuto bisogno di darmi un pizzicotto per svegliarmi, non credevo che fosse vero. Mi sono sentito come un bambino a cui avessero appena dato la possibilità di giocare con tutti i giocattoli del mondo, dicendogli: “Ecco, questo è il tuo lavoro”».

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La boutique di Redemption a New York, realizzata nel 2019 dallo Studio Luca Guadagnino. © Giullio Ghirardi

Inizialmente è stato l'amico Federico Marchetti, fondatore di Yoox, a spingerlo, chiedendogli di progettare gli interni della casa sul lago di Como dove vive con la moglie, la giornalista Kerry Olsen. «Ha visto in me qualcosa che io stesso non riuscivo a vedere. Non avrei mai osato propormi per un intervento così importante, in una casa di famiglia. Ma ci teneva che fossi io a farlo». La visione del regista ha preso vita con la collaborazione di 150 artigiani italiani: una palette di colori rétro, da cui spiccano una scala elicoidale e un'area piscina sotterranea. La casa è stata completata nel 2018 e, l'anno successivo, Guadagnino ha progettato anche gli interni dell'appartamento milanese di Marchetti. «Ho iniziato da solo, poi ho chiesto a un amico architetto se volesse scommettere con me su quest'avventura», continua il regista. «Abbiamo lavorato insieme per un anno e, quando lo studio ha iniziato a decollare, abbiamo coinvolto altri due architetti, uno dei quali, Stefano Baisi, è ancora con noi e sta dando un contributo fondamentale».

Il Grand Hotel Campo dei Fiori, in provincia di Varese, chiuso dagli anni Sessanta, set principale del film Suspiria, del 2018. © Mikael Olsson

 

Oggi lo studio conta un team di 12 persone, al lavoro su progetti residenziali e commerciali, inclusi lo store romano e londinese del brand di skincare Aesop e la scenografica boutique di Redemption, a New York. «Lavorare con lui è come accedere a un mondo dove l'impossibile diventa possibile», dice Baisi. «Ha una visione che ci spinge a osare, spesso partendo solo da un'immagine o da un dettaglio. Ho sposato il suo approccio e faccio del mio meglio per realizzarlo». Lo stile di Guadagnino è influenzato dal suo vissuto: madre algerina, padre siciliano, insegnante di storia e letteratura italiana; lui è nato a Palermo nel 1971, ma è cresciuto in Etiopia. «Vivevamo ad Addis Abeba in una casa con un grande giardino e tanti animali, sotto l'immenso cielo africano», ricorda. L'avvicinamento alla regia inizia presto, quando gli regalano una videocamera Kodak Super 8, con la quale inizia a sperimentare. «Ho sempre avuto una predisposizione naturale per il cinema», mi dice mentre si sporge in avanti, con l'aria di chi sta per fare una confessione. Poi sprofonda di nuovo nella sedia e sorride: «Nella mia testa facevo già il montaggio».

Una vista del bagno della casa milanese di Federico Marchetti, progettata da Guadagnino. © Mikael Olsson

Come regista, Guadagnino è diventato sinonimo di un'estetica che fonde modernismo e bellezza, architettura e paesaggio italiano, e rende le sue opere immediatamente riconoscibili. È come se nell'aria aleggiasse sempre un senso di nostalgia, forse collegato alla sua esperienza personale. «La prima immagine che ho di un'architettura modernista è quella dei cinema etiopi, costruiti dai colonizzatori italiani in stile fascista», dice. «Erano sontuosi e, al tempo stesso, lineari. Li ricordo molto bene, così come i film che ho visto lì». Giasone e gli Argonauti e Lawrence d'Arabia lo avevano colpito tantissimo. L'horror declinato da Cronenberg, Carpenter, Crave e Franju gli «ha incendiato il cervello» anche se, quando ha iniziato a fare il regista, gli sembrava che il genere fosse diventato ormai reazionario e conservatore. «Però il cinema mi aveva ormai già influenzato due volte, come regista e come progettista», continua.

Rientrato a Palermo con la famiglia nel 1977, dopo lo scoppio della guerra civile in Etiopia, il regista viene colpito dalle contraddizioni e dagli eccessi venutisi a creare con il sacco di Palermo, il boom edilizio tra gli anni Cinquanta e la metà degli anni Ottanta che Guadagnino descrive come «il sequestro della città da parte dei politici». Anni in cui la fisionomia architettonica urbana è stata stravolta, ed edifici Art Nouveau sono stati abbattuti per far posto a colate di cemento. «Ma restano ancora la città vecchia e il mare con le montagne sullo sfondo. Credo che tutti questi contrasti, insieme al fatto che io venissi dall'Etiopia, siano ciò che ha determinato quello che sono diventato oggi», dice.

Guadagnino nella sua tenuta piemontese. ©Andy Massaccesi

Il regista ha un occhio puntuale per i dettagli: lo si nota nell'austerità ispirata al Bauhaus di Suspiria (la scenografia è di Inbal Weinberg), nell'eleganza borghese e un po' fané della villa di Chiamami col tuo nome, firmata dalla set designer Violante Visconti di Modrone. «Ho imparato presto quanto appagamento ci sia nella cura dei particolari - il piacere, l'ossessione, l'inevitabilità», dice Guadagnino. «Ero destinato a fare il regista. Ho un senso per il dettaglio che traspare in tutto ciò che faccio». Costruisce la maggior parte dei suoi set (che preferisce chiamare «spazi tridimensionali») su misura, collaborando con vari artigiani. È coinvolto appieno nel processo e confessa di alzarsi anche alle 5 prima di girare, per parlare con il team e supervisionare questa parte del lavoro. «Penso che l'artigianalità sia alla base di tutto. La gente parla di ideali e di idee, ma ciò che io trovo straordinaria è la fisicità, la possibilità di creare qualcosa di tangibile», dice. «Abbiamo appena realizzato un tavolo in marmo rosa e giallo. C'è voluto un po', ma vederlo prendere forma grazie alla precisione dei marmisti è stato fantastico».

Un set di Chiamami col tuo nome, 2017. © Giulio Ghirardi

 

Questo approccio al design dà vita a interni complessi, pieni di atmosfera, come quelli presentati allo scorso Salone del Mobile di Milano nell'installazione Accanto al Fuoco/By the Fire, concepita da Stefano Baisi. I visitatori accedevano a due living contrapposti. Un lato della stanza era ridotto all'essenziale, con un camino in ceppo di Gré su uno sfondo di legno di quercia, granito e velluto blu; mentre l'altro era teatrale, lussuoso, con un camino ricostruito in ceramica a toni sfumati degradanti, circondato di travertino, bambù e velluto rosso. Lo studio ha disegnato nuovi punti luce, realizzati da FontanaArte, e alcuni coffee table componibili; nello spazio c'erano anche le ceramiche dell'artista Francesco Simeti, amico del regista.

Una vista dell'installazione B Accanto al Fuoco/By the Fire di Studio Luca Guadagnino, alla Milano Design Week 2022. © Giulio Ghirardi

Nella realizzazione dei suoi interni, Guadagnino coinvolge spesso brand storici: è il caso dell'azienda francese La Manufacture Cogolin, che ha creato i tappeti pop-art per l'installazione milanese ispirata a Carlo Scarpa, e quella tedesca Nymphenburg, dietro al camino multicolor in ceramica (un altro uguale si trova nella casa di campagna del regista). «Mi piacciono le collaborazioni perché danno la possibilità di scoprire, insieme, cose nuove», spiega. «Mi piace la tensione generata dalla novità, ma anche la sensazione confortevole di ciò che è familiare». In effetti il suo team gioca spesso con i contrasti. Per esempio, gli spazi del concept store romano di Aesop combinano pietra grezza, marmo rosato e pannelli di paglia in una citazione della Roma antica. Nel negozio londinese del brand, la giustapposizione dei materiali è realizzata attraverso un marmo grezzo che si irradia da un pavimento in pietra con motivo a rombi. «Vorrei che le persone percepissero il valore della tangibilità. Ecco perché, per me, il design è un lavoro fondamentale, molto più del cinema», afferma Guadagnino. «Il cinema si occupa di desideri e li proietta sullo schermo. Le emozioni passano dal cervello agli occhi e al cuore, ma l'architettura e il design d'interni devono essere mappati nello spazio fisico. Quando entri in un luogo ne senti l'odore, lo tocchi, osservi come una curva si trasforma in linea e come le interazioni tra luce e volumi diventano tattili. Questo è ciò che muove me e il mio team».

Il set della Haute Couture di Fendi nel 2021. © Courtesy of Fendi

Lo studio ha in cantiere molti progetti. «Stiamo lavorando a un hotel romano, con apertura prevista per il 2023. E poi alla lobby e al bar di una famosa società di talent management a Hollywood, a una bella villa Art Nouveau a Venezia e ad altro ancora», racconta. La sua villa piemontese non compare più nella lista. Essendo un appassionato collezionista, il vintage ha giocato un ruolo importante nell'estetica generale. «Mi piace il grande architetto Umberto Riva, scomparso da poco, e ammiro molto Guglielmo Ulrich. Ma sono cauto negli acquisti, perché un oggetto può polarizzare un intero ambiente e voglio calibrare molto bene l'effetto finale», dice. «Preferisco una stanza completamente vuota a una che non tiene conto dell'interazione tra arredi e spazio. La mia ambizione? Raggiungere il traguardo di essere senza tempo, sia io sia le mie creazioni». Ritornando allo spazio progettato proprio per potersi sedere a scrivere, ride: «Almeno lì, non collaborerò con nessuno».

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