«Lui? Determinato Lei? Ambiziosetta Ragionando così non si va da nessuna parte»
L’Ad di Illycaffè, Cristina Scocchia, racconta le sue esperienze, dallo stage ai vertici aziendali. Senza perdere di vista i diritti delle donne e la questione culturale della parità
di Eliana Di Caro
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Lo racconta ancora con il sorriso negli occhi: «Ma tu come ti vedi tra 15 anni?, mi chiese quello che sarebbe diventato il mio capo. E io, con la sfrontatezza e leggerezza che si hanno a vent’anni, risposi: mi vedo come amministratore delegato». Cristina Scocchia, 48 anni e Ad di Illycaffè, non dimentica il primo colloquio che fece in Procter & Gamble mentre studiava alla Bocconi e che le avrebbe cambiato la vita. «Mi presero per uno stage di tre mesi, retribuito. Una condizione fondamentale perché non avrei potuto chiedere ai miei genitori di continuare a pagare la retta dell’università, l’affitto a Milano e in più quello di Roma. E invece le occasioni vanno date a tutti, anche a chi, come me, proviene da una famiglia del ceto medio».
Il papà insegnante di Educazione tecnica alle medie, la mamma maestra d’asilo, l’infanzia e l’adolescenza vissute a Coldirodi, un borgo di poche migliaia di abitanti a 20 minuti da Sanremo dove Cristina, unica figlia, frequenta il liceo scientifico. Divisa tra il sogno della medicina e quello della direzione d’impresa che poi prevale, incoraggiata sempre dall’insegnamento del padre: non importa se ce la fai o meno, devi però provarci con determinazione e ne uscirai comunque a testa alta per averlo fatto e senza poterti rimproverare nulla. Sono queste parole che, in Procter & Gamble, le danno la spinta a lavorare dalle 9 del mattino alle dieci di sera, e poi studiare dalle 11 alle 3 di notte, usando i giorni di ferie per andare a fare gli esami e laurearsi in Economia aziendale con il massimo dei voti. Seguiranno 16 anni di permanenza nella multinazionale americana, tra Roma e Ginevra, l’Europa e il Medio Oriente, arrivando a essere responsabile delle cosmetics international operations in 75 Paesi: « Nel 2004 - racconta - ero l’unica donna nel leadership team della regione di cui mi occupavo (Europa centrale, Medio Oriente e Africa). Ho imparato sul campo cos’è la diversity, che è di genere ma anche culturale.
È stata un’esperienza molto formativa che mi ha insegnato cos’è la leadership empatica, partecipativa, collaborativa. Il rispetto professionale era garantito dall’appartenenza a P&G, ma riuscire a costruire un rapporto di stima e fiducia è altra cosa dal rispetto formale. Bisogna mettersi in ascolto dell’altro con umiltà». Giunge però il momento in cui Cristina Scocchia si sente sazia, si muove ormai in una comfort zone che le sta stretta, ed è per questo che, dopo otto colloqui a Parigi, accetta l’offerta di L’Oréal e diventa Ad della filiale italiana che «negli ultimi cinque anni aveva perso terreno a livello di fatturato, profitto, quote di mercato per cui c’era la sfida di rientrare nel mio Paese, prendere L’Oréal Italia e riportarla alla crescita: questo mi stimolava molto». Il 4 dicembre 2013 l’annuncio del suo nuovo ruolo nella filiale di circa duemila dipendenti. «In quattro anni abbiamo investito sul digitale, lanciato nuovi prodotti e avviato una vera e propria trasformazione culturale», ricorda, alludendo all’entrata in scena, già nel 2014, dello smart working. «In Italia non ne parlava nessuno e quando dicevano “lei è una donna e quindi lo introduce perché vuole facilitare la conciliazione lavoro/famiglia per le donne”, io spiegavo che certamente il tema mi sta molto a cuore, ma primo: non lo si contemplava solo per le donne, perché dei figli e della famiglia se ne devono occupare tutti; secondo: l’intento era favorire il passaggio da una leadership basata sul controllo, e quindi attenta al numero di ore che si passano in ufficio davanti al computer, a una leadership che punta sulla fiducia, sul merito, sui risultati, sulla capacità di motivare. E mi creda, se oggi sembrano discorsi un po’ sentiti, otto anni fa sgranavano gli occhi.
Anche per l’intera L’Oréal, il nostro è stato il primo Paese insieme all’Inghilterra a introdurre lo smart working. Ci furono tassi di adesione molto alti ed equamente distribuiti tra uomini e donne. Siamo tornati alla crescita... e a quel punto ho scelto di andare in Kiko». Dalla guida di una filiale, dunque («dove però non mi occupavo di prodotto, finanziamento e non c’era la dimensione internazionale»), a quella di un’intera azienda. È qui che Cristina Scocchia incontra la prima grande difficoltà, un ostacolo imprevedibile e fuori portata, che risponde a cinque lettere e due numeri: Covid 19. Il virus sopraggiunge in un momento in cui Kiko (600 milioni di fatturato e circa settemila dipendenti) aveva ribaltato, con la manager ligure, un trend negativo, tornando in crescita e allargando il suo raggio d’azione da 24 a 46 Paesi. «Non dimenticheremo mai Mattia, il primo caso di Covid, nelle aree della bergamasca. Il quartier generale di Kiko è a Bergamo. Nel giro di pochissimo, il 10 marzo, abbiamo dovuto chiudere 1000 negozi nel mondo (il 99%) e mettere in cassa integrazione quasi 7mila persone. Avevo la responsabilità di 7mila famiglie, abbiamo chiuso prima che fosse obbligatorio per legge: ormai era chiaro che non si trattava di un’influenza e bisognava proteggere la vita delle persone. Ho voluto comunicare a tutti i Paesi, uno per uno, quel che stava accadendo, perché sentire parlare di cassa integrazione e chiusure senza sapere quando poter riaprire è disarmante. Siamo rimasti chiusi per oltre 4 mesi nella prima ondata, poi abbiamo richiuso nella seconda, per quattro settimane abbiamo sospeso anche l’e-commerce, insomma il 2020 si è concluso con un profitto molto negativo. Il 70% dello stipendio è stato però garantito anche in quei Paesi in cui non c’è l’istituto della cassa come l’India o alcuni Stati del Medio Oriente». Anzi, va avanti Scocchia, proprio nel momento di difficoltà si accelera e Kiko ha aperto in altri tre Paesi - Grecia, Arabia Saudita e Balcani - attraverso il franchising, e ha assunto a Bergamo 50 persone: «Una goccia nel mare, si dirà, ma in ogni caso un’iniezione di energia nel momento in cui tutti avevamo negli occhi le immagini delle bare lungo le strade della città. Nel 2021 ci siamo rimboccati le maniche e siamo ritornati alla crescita, in positivo con il profitto». I tempi, a questo punto, sono maturi per la scommessa successiva.
Scocchia era in Illy da tre anni come membro del Cda quando Andrea Illy le propone di diventare Ad con l’obiettivo di portare l’azienda in Borsa. «Una sfida del genere non mi si era mai posta nelle esperienze precedenti, e così ho deciso. Dal 1° gennaio sono qui». È un territorio diverso, ma il passaggio dal beauty al caffè è per la manager l’occasione per sfatare lo stereotipo che ruota attorno alla cosmetica: «Spesso alcuni hanno commentato“certo, per te è più facile”, come dire che ciprie e rossetti sono un gioco da ragazza. L’ho sempre ritenuto offensivo nei confronti delle donne. Che ci si occupi di cosmetica o di bulloni, alla fine l’Ad fa più o meno lo stesso lavoro: finanza, marketing, prodotto, innovazione. Molti considerano il beauty in modo superficiale, invece è un settore che dà lavoro a tante persone, è uno dei driver dell’economia italiana, con il 65% della produzione nel nostro Paese». Sono passati quasi nove mesi da quando è al timone di un’azienda che rappresenta una delle eccellenze del Made in Italy - 520 milioni di euro di fatturato, oltre 1300 dipendenti in più di 140 Stati - e lo sguardo corre oltreconfine: «L’obiettivo è crescere all’estero, siamo molto forti nel segmento alto di gamma in Italia con possibilità di raddoppiare negli Stati Uniti, il nostro secondo Paese, e crescere in Cina, dove siamo presenti con una filiale ma molto piccola. Per noi, quindi, è una grande opportunità. Dobbiamo inoltre investire sulla crescita della quota di mercato in Europa, senza dimenticare l’e-commerce. E, infine, rendere pronta l’azienda per la quotazione nell’arco di piano, che è 2022-2026».
Cristina Scocchia si divide tra la sede di Milano, dove è stato appena inaugurato un nuovo punto vendita, e il quartier generale di Trieste. Ma lo spostamento continuo è nel suo Dna: il marito, cardiochirurgo, lavora in Svizzera e sin dal 2013 si riuniscono nel fine settimana con il figlio Riccardo. La flessibilità, dunque, è un abito mentale della manager ligure, e lo è anche di Illycaffè, che assicura «un contributo finanziario per gli asili nido, percorsi di formazione e reskilling, smart working per tre giorni alla settimana». Da componente dello striminzito 3% delle Ad italiane, Cristina Scocchia ha le idee ben chiare in tema di lavoro femminile. La precondizione per lasciarsi alle spalle «le forche caudine attraverso le quali le donne devono passare per avere l’opportunità di provare il loro talento» è di natura culturale, a cominciare dal diritto alla pari realizzazione professionale: «Fino a quando di lui si pensa “è determinato”, di lei “è ambiziosetta”, non si va da nessuna parte. Lo stesso vale per quel che riguarda la ripartizione dei carichi familiari, che gravano sulle donne dalle tre alle sei ore al giorno: a cambiare un pannolino possono pensare entrambi, così come per la spesa, la lavatrice ecc.». C’è però anche il problema delle infrastrutture per le famiglie, ancora molto carenti in Italia: «Abbiamo troppo pochi asili nido pubblici, un non adeguato tempo pieno nelle scuole elementari pubbliche, troppo poche attività accessibili a tutti che educhino e intrattengano il bambino nel pomeriggio, e quindi coperte dallo Stato per coloro che non hanno sufficienti possibilità». Infine, un tema di cui da qualche tempo si parla, ma mai abbastanza: «Abbiamo solo 16 laureate in materie scientifiche su 100, i laureati Stem sono 37 su 100, più del doppio. È da lì che si comincia».
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