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Luigi Berlinguer, la scuola e noi

Formazione e selezione dei docenti, rigidità degli indirizzi, dispersione scolastica, debolezza della formazione terziaria restano ancora problemi irrisolti

di Mauro Piras

Luigi Berlinguer. (Ansa)

5' di lettura

Le coincidenze della storia a volte sono sorprendenti. Negli stessi giorni in cui ricorre il centesimo anniversario della più influente riforma scolastica italiana nel Novecento, quella di Giovanni Gentile, giunge la notizia della scomparsa di Luigi Berlinguer, il ministro dell’istruzione più importante nel passaggio tra il XX e il XXI secolo, e l’ultimo ad aver promosso un grande e coerente intervento sulla scuola. La coincidenza ci obbliga a riflettere non soltanto sulla sua figura, ma sulla situazione della scuola italiana, con uno sguardo lungo.

Il nome di Berlinguer è legato a un progetto riformatore che ha cercato di tenere in un unico disegno diversi lati del sistema scolastico: la sua gestione e amministrazione (la governance, come si dice oggi); la formazione iniziale e la selezione; l’esame di Stato; l’innalzamento dell’obbligo scolastico; la revisione dei curricola e dei “programmi”; e soprattutto il percorso stesso degli studenti, con la riforma dei cicli scolastici.

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Su tutti questi punti, tranne l’ultimo, il suo intervento struttura ancora la nostra scuola, ma richiede una riflessione su ciò che è rimasto incompiuto, ciò che si è rivelato inadeguato e ciò che è stato abbandonato.

L’autonomia scolastica

Sul terreno della governance, Berlinguer è il padre dell’autonomia scolastica: dagli interventi di fine anni novanta data l’autonomia didattica e organizzativa delle istituzioni scolastiche, che acquisiscono personalità giuridica, e la trasformazione dei presidi in dirigenti scolastici. Su tutto questo serve una riflessione profonda. L’idea iniziale era semplice: un regolamento essenziale, pochi limiti normativi, dentro i quali si muove l’autonomia dei singoli istituti. La realizzazione si è allontanata troppo da questa intuizione: la produzione normativa sulla scuola, sia parlamentare e governativa, sia ministeriale, ha continuato a crescere in modo ipertrofico e spesso contradditorio, e l’autonomia effettiva delle scuole si è mossa sempre tra mille secche e scogli. Inoltre, su alcuni terreni fondamentali come il personale, le risorse finanziarie e la gestione degli edifici l’autonomia è rimasta sempre molto limitata, se non inesistente. Allo stesso tempo, l’autonomia in ambito didattico ha riguardato prevalentemente “i margini” dell’offerta formativa e didattica, facendo crescere una “scuola dei progetti” che si sovrappone superficialmente e disordinatamente a “quello che si fa normalmente in classe”.

La professione docente

Sul terreno della formazione iniziale e della selezione dei docenti, le riforme Berlinguer hanno impresso una svolta: è stato abbandonata, almeno sulla carta, l’idea che basta la laurea in una materia per insegnare a scuola; si è affermata, inizialmente, l’idea che per insegnare serve un percorso specifico, professionalizzante, fin dall’università. Questa idea ha preso piede stabilmente per la scuola primaria. Per la scuola secondaria il progetto iniziale, le scuole di specializzazione post-laurea istituite da Berlinguer, non è durato a lungo, e dopo si sono visti molti esperimenti diversi, nessuno destinato a durare. La formazione iniziale e i concorsi sono entrati così in una situazione caotica che stiamo ancora scontando. Adesso sta muovendo i primi passi un nuovo modello di formazione iniziale universitaria e nuovi concorsi. Sarà la volta buona? Lo sarà solo a una condizione, quella che è mancata fin dalle riforme Berlinguer e che continua a mancare oggi: sottrarre questa materia ai conflitti di interesse politico-sindacali, e difendere quindi la stabilità delle istituzioni nel tempo, in quanto stabilità dello Stato. Finora non è successo, e la formazione e la selezione dei docenti, cruciali per una delle istituzioni chiave dello Stato, la scuola, sono nel caos.

L’obbligo scolastico

L’innalzamento dell’obbligo scolastico è stato realizzato a singhiozzo, tra il 1999 e il 2006, ma è stato realizzato. Fino a quel momento l’obbligo era a 14 anni, ed era stato compiuto veramente solo con la riforma della scuola media unica del 1962, che ha portato alla scolarizzazione di massa nella fascia di età fino ai 14 anni appunto. L’innalzamento dell’obbligo a 16 anni ha l’intento di spostare l’obbiettivo: arrivare alla scolarizzazione di massa nella fascia di età tra i 14 e i 19 anni. E per fare questo Berlinguer legava l’innalzamento alla riforma dei cicli. Questa non è stata fatta, alla fine. Ma l’innalzamento, per quanto con passaggi anche contradditori e incerti, è stato fatto. E i risultati si vedono. Nel 1990-91 il tasso di scolarizzazione nella fascia di età 14-19 anni era del 68%; dal 2002-03 è del 92% e oltre, e arriva quasi al 100% se si considerano anche gli iscritti all’istruzione e formazione professionale. La scuola di massa, in Italia, è arrivata in ritardo, perché il sistema ha risposto in ritardo alle esigenze della modernizzazione. E ora si trova su questa soglia.

La riforma mancata: i cicli scolastici

Il punto più ambizioso del progetto di Berlinguer era la riforma dei cicli: ristrutturare il percorso scolastico degli studenti, istituendo una scuola di base fondamentale e unitaria di sei anni, seguita da una scuola secondaria di sei anni, che portava a una formazione superiore negli ultimi tre anni, in vista degli studi post-diploma (non solo universitari ma anche tecnico-superiori, anche quest’ultimo un settore avviato da Berlinguer). Si trattava di realizzare finalmente la riforma della scuola secondaria superiore, di cui si parlava in Italia dalla fine degli anni sessanta, dopo la riforma della scuola media, ma che non era mai stata portata a compimento: per realizzare l’ideale di una scuola democratica, superare le rigide suddivisioni in indirizzi, creare un sistema più flessibile e aperto, più in continuità nel segmento tra i 12 e i 18 anni. Una maggiore unità della scuola superiore e un suo migliore raccordo con la scuola di base da un lato e con gli studi post-diploma dall’altro dovevano servire a rendere meno rigido e meno socialmente selettivo il sistema scolastico.Questa riforma, pur approvata, non ha mai visto la luce. Non è stata difesa dal centrosinistra che pur l’aveva promossa, è stata attaccata dai sindacati ed è stata rovesciata dalla destra: quando si è passati alla “riforma Moratti”, nel 2003, l’impostazione è stata ben diversa. Il disegno originario di Bertagna aveva elementi di originalità che avrebbero portato a ridisegnare comunque l’ordinamento scolastico, anche se in una direzione diversa. Ma anche Bertagna era troppo visionario. Quello che è stato realizzato effettivamente, attraverso il riordino Gelmini (2009-2010), è uno schema più tradizionale che ha confermato la struttura familiare a tutti gli italiani da appunto un secolo: dopo la scuola elementare e la scuola media, un ampio raggio di scelte tra scuole superiori, ordinate secondo lo schema triadico licei, istituti tecnici, istituti professionali. La scelta tra i diversi indirizzi, a 14 anni, non è facile; i passaggi tra l’uno e l’altro sono ardui, e le bocciature fioccano proprio nei primi due anni di questa scuola superiore, e soprattutto nelle scuole di cui si parla di meno, gli istituti tecnici e professionali; e sempre in quegli anni e in quegli istituti, si toccano i tassi più alti di dispersione scolastica.Abbiamo ancora, di fronte agli occhi, i problemi da cui partiva Berlinguer più di 25 anni fa: formazione e selezione dei docenti, rigidità degli indirizzi, dispersione scolastica, debolezza della formazione terziaria, e ci troviamo sempre a dover ricominciare, anche per aver mancato la riforma delle riforme, quella dei cicli. E come per le riforme istituzionali, il discorso da oltre trent’anni gira sempre intorno agli stessi problemi e alle stesse soluzioni, nelle stesse sabbie mobili di un discorso pubblico che non vuole farsene carico.


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