Idee

Luigi Einaudi, uno scrittore alla prova delle Considerazioni finali

La prosa di Einaudi, divenuta prototipo per le Considerazioni finali dei governatori, è serrata, spazia dalla ricostruzione dei fatti, alla spiegazione piana di cause e conseguenze, al richiamo al dovere

di Luigi Federico Signorini

6' di lettura

Quando Luigi Einaudi, il 31 marzo del 1947, lesse la sua analisi “economico-morale” sui “fatti accaduti” nel 1946, in coda alla relazione annuale della Banca d'Italia, “Considerazioni finali” non era che il titoletto attribuito all'ultimo capitolo di un testo denso e pieno di dati. Quelle riflessioni tuttavia inaugurarono un genere nuovo nella letteratura economica italiana; un genere cui contribuiranno tutti i Governatori che fino al maggio scorso hanno presentato altri 74 di quegli scritti, che tirano le fila delle analisi sviluppate nel corpo della relazione, analizzano criticamente le politiche economiche, additano i problemi della finanza pubblica, indicano prospettive. In Banca vengono chiamate semplicemente “le CF”, e così le chiamerò io ...

Un prototipo artigianale di quelle che verranno

Le “CF” sul 1946 sono un prototipo artigianale di quelle che verranno. Ora sono una macchina complessa e oliata, manovrata dal Governatore pro tempore insieme a un piccolo numero di collaboratori stretti. Ma la discussione coinvolge, di persona, decine di dirigenti. Non è, questo, solo un modo per mettere insieme le informazioni e le considerazioni prodotte o raccolte dalle varie funzioni della Banca; le CF sono anche un'occasione che contribuisce a formare, in una discussione franca e aperta dove l'unica cosa vietata è la superficialità, il punto di vista politico-economico dell'istituzione.

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Einaudi invece le Considerazioni finali le scrisse da solo, di suo pugno. Nell'Archivio Storico della Banca d’Italia ci sono ancora le pagine che vergò: a sfogliarle viene da pensare che siano state scritte di getto. Vi era naturalmente, dietro le sue considerazioni, lo studio dei “fatti” sviluppato dagli economisti del Servizio Studi. Quest'ultimo è testimoniato ad esempio da un appunto del Capo del Servizio, Paolo Baffi, che assegna i compiti ai diversi redattori della relazione sul 1946: è uno schema inviato al dirigente Federico Caffè, con una nota che mostra i segni di un antico dibattito fra gli economisti della Banca sui vantaggi e gli svantaggi del liberismo...

Artigianalità e tempra narrativa sono comunque tratti caratteristici delle CF einaudiane. Einaudi era uno scrittore nel senso pieno della parola: lo ha ribadito la linguista Valeria Della Valle alcuni anni fa, in occasione di un convegno organizzato dalla Banca per il sessantesimo anniversario della sua ascesa al Quirinale. Della Valle ci ha ricordato come Gianfranco Contini nel 1968 avesse inserito un brano delle Prediche inutili nell'antologia da lui curata della Letteratura dell'Italia Unita. Scrisse Contini, introducendo il testo, che le idee di Einaudi erano state affidate a «numerosi articoli di grandi quotidiani, che palesano qualità di grande giornalista e di autentico scrittore. Caratteristica ne è la fedeltà al costume prosastico di fine Ottocento, leggerissima velatura patriarcale che assicura autorevolezza e produce distacco: ciò corrisponde all'atteggiamento paradossale solitamente conferito al ragionamento e all'affettazione che questo debba rimanere inascoltato».

La scrittura funzionale

Contini concludeva la sua presentazione del brano dicendo: «la presenza di un economista tra i migliori prosatori di questo secolo – quelli raccolti nella sua antologia– vuol richiamare l'attenzione sulla larghissima e non abbastanza riconosciuta parte che la scrittura funzionale occupa accanto alla scrittura autonoma nei valori espressivi contemporanei».

La sua capacità di scrittore si esprime brillantemente anche nel testo delle “CF”. Ma in questo testo non si percepisce quell'affettazione sottolineata da Contini, quell'ironia amara della “predica inutile”. In questo momento Einaudi è l'uomo chiamato a rilanciare una componente fondamentale del “governo allargato” del Paese.

La scrittura svolge dunque un ruolo istituzionale; in questo quadro persegue fini tecnici, educativi e morali al tempo stesso. La prosa di Einaudi diviene serrata; spazia dalla ricostruzione precisa dei fatti, alla spiegazione piana e paziente di cause e conseguenze, al richiamo al dovere: il dovere, cioè, che agli italiani compete, di contribuire allo sforzo collettivo della ricostruzione, nel quadro delle riconquistate istituzioni libere. Ora, dice per esempio Einaudi, occorre la disponibilità a sopportare «i necessari sacrifici di imposte» (...)

“Velo patriarcale”

Non mancano dunque le esortazioni; ma il vezzo della predica inutile, se vogliamo chiamarlo così, è lontano. È invece ben presente il “velo patriarcale” di Contini, quello che allora prendeva la forma dei vari “all'uopo” e “in guisa” (e rimarrà in qualche misura anche nelle CF dei suoi successori, seppure adattandosi ai tempi). (...)

Einaudi mette al servizio dell'istituzione la propria scienza e la propria capacità di scrittore: usa entrambe per corrodere tenacemente gli atteggiamenti ideologici, gli atteggiamenti che rinunciano alla disamina dei fatti. Disse Norberto Bobbio che Einaudi, in un paese prono alla fascinazione dell'idealismo, faceva parte della ristrettissima schiera dei superstiti del positivismo, di coloro che seguono “la lezione dei fatti”,con la loro passione dei ragionamenti ben fatti, e appoggiati su dati, di prender le mosse da un fatterello piuttosto che da una citazione, una corrente di pensiero che non ha mai messo radici nel nostro paese e che appena tenta di uscire allo scoperto viene subito azzannata dalle tigri e dai loro amici .

Un intento e uno stile pedagogico

Einaudi azzannato dalle tigri? Forse sì, ma seppe difendersi. Un intento e uno stile pedagogico (“vocazione”, l'aveva chiamata Gobetti) permeano ampiamente i suoi scritti. “Quel che occorre è imparare a distinguere il vero dal meno vero; il metodo di ragionare”, scriverà, da nonno e da Presidente della Repubblica, al nipote che si apprestava a iniziare gli studi universitari; e si sa che avrebbe voluto che nelle scuole, anziché studiare l'economia in astratto, si riuscisse a far capire bene ai ragazzi il capitolo sulla carestia dei Promessi Sposi. Invano tuttavia Manzoni scrisse pagine stupende sui pregiudizi popolari intorno alla scarsità ed all'abbondanza di frumento e della farina, agli incettatori e ai fornai; ché ogni volta il discorso cade oggi sul rincaro dei viveri, sui prezzi al minuto e all'ingrosso, sulle malefatte degli accaparratori e degli speculatori, si leggono sui fogli quotidiani e si ripetono nei comizi gli stessi luoghi comuni che l'ironia manzoniana aveva bollato; e cadono le braccia. (...)

Lingua capace idealmente di coniugare acribia ed eleganza

La lingua cambia nel tempo, ma in Banca d'Italia è rimasta viva l'aspirazione a una scrittura nitida, rigorosa e magari, se ci si riesce, dotata di una certa qualità estetica; a una scrittura, insomma, capace idealmente di coniugare acribia ed eleganza (...).

Certo, oggi non ci si affida semplicemente all'estro individuale di un economista- scrittore come Einaudi. Eppure gli strumenti linguistici di cui ci siamo dotati negli anni probabilmente sarebbero piaciuti al Governatore Einaudi, che forse avrebbe contribuito al nostro Vademecum per la redazione delle pubblicazioni istituzionali (e probabilmente avrebbe criticata quella “g” maiuscola, usata normalmente come iniziale della sua carica istituzionale: “Le Maiuscole guastano l'estetica della pagina”, ebbe a scrivere a Ernesto Rossi). Ne avrebbe forse apprezzato le indicazioni contro l'abuso dei termini di moda, di metafore logore, così come lui ad esempio si era battuto contro le metafore belliche in economia. Qui ci è ancora d'aiuto Valeria Della Valle, che si sofferma su espressioni come ‘azione offensiva', ‘nuovo fronte', ‘arma dialettica', ‘lotta in corso', che Einaudi considerava appartenenti a un ambito linguistico, a una fraseologia (cito Einaudi)più propria a trattazioni belliche che non a quelle pacifiche commerciali. (...)

Gli anglicismi nel linguaggio tecnico dell'economia

Non possiamo sapere come avrebbe affrontato una questione linguistica oggi molto discussa, e cioè la presenza crescente degli anglicismi nel linguaggio tecnico dell'economia; se avrebbe adottato l'atteggiamento cruscante di chi si fa un dovere di rifiutarli in blocco, o convenuto con la posizione più possibilista ...

Nelle nostre pubblicazioni, nei discorsi, facciamo attenzione a evitare gli anglicismi quando sono inutili e ineleganti, quando l'uso della parola inglese è frutto più di pigrizia e sciatteria che di vera necessità; quando la parola italiana equivalente, perfettamente adeguata, rende il testo più chiaro e incisivo. Ma non dichiariamo una guerra pregiudiziale agli anglicismi [ecco anche qui una metafora bellica!] nella coniazione di nuovi termini economici, bancari e finanziari... Le parole nuove, quando indicano cose nuove, sorgono ormai dappertutto nello stesso momento. Non di rado l'uso di una parola globale per designare una cosa (un prodotto, una transazione) globale facilita la comunicazione, anche tra soggetti di una sola nazione, inevitabilmente immersi nel flusso internazionale delle informazioni e delle idee. Non di rado la ricerca affannosa dell'equivalente indigeno, del calco linguistico, o almeno dell'italianizzazione morfologica, può sonare artificiosa e nuocere, piuttosto che giovare, alla chiarezza della comunicazione.

Non lo sappiamo, ma (cedendo un po' al vizio comune di attribuire fittiziamente ai grandi le nostre opinioni su fatti che essi non videro) ci piace pensare che chi, come lui, si nutrì del dibattito plurilingue dell'Europa colta e fu immune – cosa allora rara – da ogni provincialismo intellettuale, non avrebbe avuto un atteggiamento troppo distante da questo.

Le “Considerazioni finali” di Luigi Einaudi, dall’Intervento di Luigi Federico Signorini, Direttore Generale della Banca d'Italia. Sul sito della Banca d’Italia l’intervento al completo.

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