Luigi Roth, il Novecento del lavoro di un manager che ha vissuto fabbriche, Br e la balena Dc
Luigi Roth, classe 1940, è conosciuto soprattutto per la presidenza della Fiera, con cui ha contribuito a modificare la morfologia di Milano
di Paolo Bricco
I punti chiave
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«Nel 1968 lavoravo in Pirelli. Ero alla Direzione consulenza organizzativa. Una Fiat 600 multipla andava avanti e indietro in viale Sarca dal mattino alla sera: la voce dal megafono scandiva “Pirelli, Agnelli, ladri gemelli”. A Milano operavano i Collettivi Armati Metropolitani. Ne facevano parte Renato Curcio, Margherita Cagol e Alberto Franceschini. Due anni dopo, nel 1970, sarebbero nate le Brigate Rosse. E quei tre avrebbero composto il loro gruppo dirigente. Un giorno vengono nel mio ufficio due sindacalisti. Chimici della Cgil e della Cisl. Persone molto strutturate e molto perbene. Mi dicono di avere sentito, nella zona grigia fra la fabbrica e i sindacati, i movimenti e i partiti, che i Collettivi Armati Metropolitani vogliono fare saltare in aria l’impianto ad alta pressione della Pirelli. Io insisto perché, in maniera riservata, si vada tutti insieme a parlarne all’ufficio politico della questura. All’inizio, i due sindacalisti esitano. Non sono convinti. Alla fine, organizziamo un incontro alla Digos con Antonino Allegra che, l’anno dopo, sarebbe stato con il commissario Luigi Calabresi sulla scena della morte in questura dell’anarchico Giuseppe Pinelli. Allegra ascolta, raccoglie la segnalazione e ci ringrazia garantendo la piena segretezza».
Dalla Pirelli alla Fiera
È meglio non fare i nomi dei due sindacalisti dato che, fra le poche cose sicure in Italia, ci sono la casualità e la violenza. Si sa, invece, che nessuno sabotò l’impianto ad alta pressione della Pirelli. Luigi Roth, classe 1940, è conosciuto soprattutto per la presidenza della Fiera (otto anni, dal 2001 al 2009), con cui ha contribuito a modificare la morfologia di Milano e a migliorarne il posizionamento sullo scenario europeo: risalgono ad allora la costruzione della nuova Fiera a Rho e la gara pubblica di cessione dei terreni di quella vecchia su cui sarebbe sorta la City Life di Zaha Hadid, Daniel Libeskind e Arata Isozaki. Roth appartiene alla generazione che ha costruito l’Italia dagli anni Sessanta e che, ancora, desidera spendere le sue energie e vedere riconosciuta la sua esperienza: è presidente di Equita, Alba Leasing, Fincantieri Sistemi e Autostrada Pedemontana Lombarda.
Siamo al Ristorante Enoteca Morganti, in quella Sesto San Giovanni che, insieme a Torino, per oltre un secolo ha rappresentato il cuore della grande industria italiana privata e pubblica. Una scelta simbolica – nella cittadina della classe operaia e dell’impresa manifatturiera alle porte di Milano in cui, per citare Bruno Trentin, «ogni giorno poteva essere il Primo Maggio» – e non casuale perché Roth è stato, nella seconda metà degli anni Ottanta, amministratore delegato della Breda Finanziaria, la società che controllava la Breda di Sesto, la Termomeccanica di La Spezia (grandi impianti) e le aziende militari Oto Melara (carri armati e blindati), Bresciana (canne di cannone e torrette per i blindati), Sma (radaristica ad alta precisione) e Galileo (tecnologie a infrarosso e puntatori).
Roth è un milanese di viale Pasubio: «Mio padre Angelo era un piccolo borghese di Porta Garibaldi diventato imprenditore, la sua ditta di lattoneria ha lavorato alla edificazione della Stazione Centrale e del Grattacielo Pirelli. Mia madre Maria Teresa era una Castoldi, una famiglia alto borghese con casa vicino a Piazza Duomo. Io sono cresciuto all’oratorio dell’Incoronata. C’erano i figli dei benestanti come me e i figli dei baraccati, d’inverno io avevo i guanti per ripararmi dal freddo, i più poveri non avevano nemmeno il paletot. Nel dopoguerra Milano, su questa mescolanza, ha creato un vero spirito democratico e di prossimità fra le persone». Dopo la laurea in Economia e commercio in Bocconi e l’esperienza in Pirelli nel quartiere della Bicocca, è stato per tre anni il capo della pianificazione della Metropolitana, la cosa più milanese che c’è a Milano: «Era finita la linea rossa. Progettammo la linea verde».
L’eredità del Novecento
Al di là di ogni biografismo, la sua vicenda affonda nel Novecento italiano e riecheggia il suo timbro dissonante di progresso e di conflitto, di felicità e di odii, di partiti di massa e di destini individuali, di amore e di morte, di imprese private e di aziende pubbliche, di Stato e di Mercato, di serenità e di paure: «Tanti anni dopo, la mia vita ha incrociato un’altra volta la traiettoria dell’eversione politica. Per fortuna, senza esiti tangibili. Nel 1993, divenni presidente e amministratore delegato di Breda Costruzioni Ferroviarie. Lo sarei rimasto per otto anni. Dovevo risanare stabilimenti validi nelle tecnologie, ma con strutture dei costi insostenibili e inefficienze organizzative enormi. I carabinieri trovarono il mio nome in alcune basi delle nuove Brigate Rosse. Mi fu assegnata la scorta. Era anche il periodo più buio di Tangentopoli. C’era la caccia aperta ai dirigenti delle aziende di Stato.
Tra Prima e Seconda repubblica
Sembrava che per i magistrati, soprattutto a Milano, chiunque avesse avuto responsabilità nel mondo dell’Iri, dell'Efim e della Gepi non potesse non avere compiuto qualche illecito o qualche scorrettezza a favore dei partiti della Prima repubblica. La corruzione e la concussione esistevano. Esisteva il finanziamento illecito del Pentapartito e del Partito Comunista. Ma nessuna ombra mi ha mai personalmente lambito. L’atmosfera, però, era quella. Per questo ogni mattina, mentre uscivo di casa e mi dirigevo verso l’auto della mia scorta, mi veniva da guardare se vi fosse un terrorista delle nuove Brigate Rosse pronto a farmi la pelle o un ufficiale di polizia giudiziaria venuto a portarmi un avviso di garanzia o un mandato di arresto», dice con il sorriso ironico e duro che avranno, fino all’ultimo dei loro giorni, i vecchi democristiani della Base: «Sono sempre stato con Giovanni Marcora. Lui non era un semplice leader politico. Lui, per noi, è sempre rimasto il comandante partigiano Albertino del Raggruppamento divisione Fratelli di Dio sui monti dell’Ossola».
Ai tavoli del Ristorante Enoteca Morganti sono seduti professionisti, impiegati e imprenditori. Negli ultimi trent’anni la classe operaia, a Sesto San Giovanni come in tutto il Paese, si è ridotta di numero, ha perduto centralità e si è depoliticizzata. Qui – come nel resto dell’Italia delle grandi fabbriche – nulla è come negli anni Sessanta, Settanta e Ottanta. Le cameriere si muovono rapide da un tavolo all’altro. Senza nemmeno chiederci che cosa desidereremmo, ci portano fette di pane tostato con sale, olio e pezzi di pomodoro. Racconta Roth: «Quando, qui a Sesto San Giovanni, entravi nelle fonderie e nel reparto delle forge, ti trovavi immerso in una realtà che sembrava l’inferno. Ho sempre pensato che non fosse un caso che Walter Alasia, figlio di due operai di Sesto, fosse cresciuto in queste strade, per morire a vent’anni nel caseggiato popolare dove viveva in un conflitto a fuoco con la polizia, dando poi il suo nome alla colonna milanese delle Brigate Rosse».
In una giornata di primavera non ancora calda, entrambi scegliamo soltanto una portata: lui un minestrone, io un risotto al taleggio. «Io non bevo mai il vino a mezzogiorno», dice.
Lo sguardo del democristiano di sinistra
La contrazione del tempo, nel ragionamento non nostalgico di un vecchio democristiano di sinistra che ha avuto una solida carriera manageriale e che ha ancora la voglia di stare sul mercato professionale, permette di cogliere le continuità e le discontinuità di una storia italiana in cui il Primo Maggio ha mutato significato. «Soprattutto adesso che, con la crisi della globalizzazione, il ruolo dello Stato torna ad ampliarsi, occorre riflettere sui punti di forza e di debolezza che avuto l’economia pubblica italiana», suggerisce Roth. Che prosegue: «La cosa che funzionava di più era la progettualità. Il ministero delle Partecipazioni Statali aveva un compito di raccordo con le imprese, i sindacati, le banche: il sistema nel suo complesso. Questa progettualità tecnologica e industriale si è persa quando le Partecipazioni Statali sono state abolite e il pallino è passato in mano al ministero delle Finanze, dove nessun funzionario è mai entrato in una fabbrica. La cosa che, invece, non funzionava era l’ossessione pubblica di salvare sempre e comunque le aziende. L’errore strategico principale è stato quello di non capire che, se un’impresa è fuori mercato, va chiusa», osserva. Roth, che è stato vicepresidente di Cassa Depositi e Prestiti dal 2004 al 2007, riflette: «È stato per esempio corretto, nella dimensione finale della Cdp definita dall’allora ministro dell’Economia Giulio Tremonti e dal leader delle fondazioni ex bancarie Giuseppe Guzzetti, inserire per statuto l’impossibilità di investimento in società in perdita».
Obiettivo bene comune
Questo pranzo è frugale, rapido e di sostanza come una riunione della corrente di base nella sede della Dc di via Clerici a Milano. E lo terminiamo con frutta tagliata a fette per lui e con un più tentatore tiramisù scomposto per me. Il Novecento del lavoro e del capitale è fonte di ombra e di luce. Entrambi gli elementi si proiettano su ogni ipotesi di futuro per il nostro Paese. Con alcune, piccole, certezze che tanti – troppi – oggi sottovalutano: «Anche se il capitale di una impresa è controllato dal pubblico, la logica economica dell’efficienza deve prevalere. Può essere temperata da ragioni di impatto sociale. Ma l’eliminazione dello spreco e l’ottenimento del buon profitto costituiscono la prima garanzia di bene comune», insiste Luigi Roth, nipote di nonno Ferdinando, operaio alla Breda.
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