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Lusso, il 78% della moda è made in Italy ma il valore aggiunto va oltre confine

Fatturato e marginalità dei primi 15 gruppi del lusso di proprietà italiana o made in Italy oltre i livelli 2019. Ma le aziende di proprietà italiana pesano solo il 9% sul totale e crescono molto meno

di Marta Casadei

3' di lettura

Il lusso di proprietà o di fattura italiana gode di ottima salute. Anche se le aziende di proprietà italiana hanno dimensioni e tassi di crescita decisamente più bassi rispetto a quelli di proprietà straniera. Per i quali, però, l’Italia rappresenta un imprescindibile hub manifatturiero e produttivo in generale. Sono queste le conclusioni dello studio presentato al 27esimo fashion summit di Pambianco, organizzato con Pwc e con il supporto di Grazia per indagare il ruolo dell’Italia nel nuovo sistema moda mondiale, tra prospettive e sfide future.

L’analisi di Pambianco ha evidenziato che 2021 i quindici principali marchi del lusso italiani (Prada, Armani, Brunello Cucinelli, Dolce&Gabbana, Otb, Moncler, Zegna, Ferragamo) o che producono in Italia (Burberry, Chanel, Hermès, Kering, Lvmh, Valentino, Richemont)  hanno realizzato ricavi per 141 miliardi di euro, in crescita rispetto ai 100 miliardi di ricavi del 2020 ma soprattutto rispetto al periodo pre Covid. Un trend che sembra continuare nel 2022: nei primi sei mesi dell’anno il fatturato complessivo è salito del 27% rispetto allo stesso periodo 2021. In salita anche la redditività: nel 2021 l’Ebitda aggregato è stato di 46 miliardi di euro, pari al 32% del fatturato, rispetto ai 35 miliardi (30%) del 2019.

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Stringendo il focus sulle proprietà, tuttavia, lo sguardo cambia: «Il peso delle aziende a proprietà italiana sul totale del fatturato è pari a 13 miliardi e quindi solo il 9%, due punti percentuali in meno rispetto al 2019», spiega Alessio Candi, consulting e M&A director di Pambianco. Non è tutto: «Sul fronte marginalità le imprese italiane del campione reggono il confronto, con un margine Ebitda medio del 28% contro il 33% di quelle internazionali,  ma su quello della crescita no, aumentando il divario dimensionale». La crescita annua media dei gruppi di proprietà italiana tra il 2019 e il 2021, infatti, si è attestata sullo 0,9% mentre quella dei gruppi stranieri è pari al +6,6 per cento.

L’Italia, come già detto, gioca un ruolo chiave anche nel loro business: circoscrivendo l’analisi ai soli segmenti del settore moda (abbigliamento, calzature, pelletteria) che hanno un peso del 57% sul fatturato complessivo dei 15 gruppi del lusso, emerge come il 78% della produzione sia localizzato proprio in Italia con un impatto economico di oltre 17 miliardi di euro, di cui circa 15 miliardi a livello di manifattura e di 2,4 miliardi di materie prime.

Da qui l’attenzione sempre maggiore verso i produttori: aziende piccole - il fatturato medio dei primi 10 player manifatturieri italiani è 102 milioni di euro; quello dei produttori di materie prime è 105 milioni - che contano su una buona redditività e lavorano molto con i mercati esteri. Tessile e concia, secondo le rilevazioni di Pambianco, valgono infatti 10 miliardi di euro ed esportano oltre il 50% dei ricavi (nel caso della concia si parla di più del 70%). «L’85% del valore aggiunto è però a valle - osserva Candi - e questo va ad alimentare i fatturati dei gruppi stranieri».

La tutela della filiera, in una gestione sinergica tra Italia e Francia, è uno degli obiettivi delle aziende del settore: «Dobbiamo essere consapevoli del nostro valore - ha spiegato Carlo Capasa, presidente di Cnmi - e valorizzare la nostra filiera. Questo però non vuol dire che dovremo essere più protezionisti ma, piuttosto, più europei: noi e i francesi siamo gli unici al mondo a difendere qualità e creatività nella moda. La base della nostra industria è creare sogni».

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