OGGI VERTICE A ROMA

M5S al giro di boa: sul tavolo anche il voto su Rousseau all’eventuale intesa col Pd

I Cinque Stelle faranno il punto con una maxi riunione: il capo politico Luigi Di Maio, il presidente di Rousseau Davide Casaleggio, i capigruppo Francesco D’Uva e Stefano Patuanelli, e poi anche i 28 capigruppo delle commissioni parlamentari di Camera e Senato

di Manuela Perrone

Crisi di governo, avanti la trattativa M5s-Pd

3' di lettura

Sono ore decisive per dipanare la matassa di un eventuale Governo giallorosso. E oggi dopo pranzo i Cinque Stelle hanno fatto il punto con una riunione dello stato maggiore: il capo politico Luigi Di Maio, il presidente di Rousseau Davide Casaleggio, i ministri uscenti Alfonso Bonafede e Riccardo Fraccaro, i capigruppo Francesco D’Uva e Stefano Patuanelli, Nicola Morra, Vito Crimi, Massimo Bugani.

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Fino all’ultimo momento non si era esclusa neppure la presenza di Beppe Grillo, che in questa crisi è tornato a svolgere un ruolo di primo piano nel Movimento. Al termine bocche cucite e un solo effetto: il faccia a faccia alle 18, durato mezzora a Palazzo Chigi, tra Di Maio e il segretario dem Nicola Zingaretti. Il segnale che il Conte bis sarebbe in discesa, avvalorato anche dalla decisione del Colle di lasciare le consultazioni su due giorni, martedì e mercoledì.

È stato finora Grillo a dettare la linea, prima vincendo le resistenze di Casaleggio sul confronto con il Pd e imponendosi sui pentastellati più inclini a tornare con la Lega. Poi ponendo sul tavolo con forza il nome di Giuseppe Conte come premier anche di un Esecutivo con il Pd. Ed è stato Di Maio a doverlo giocoforza tradurre come un ultimatum con i dem: o Conte o niente. Con la spiegazione o l’alibi che soltanto levando lo scudo del presidente del Consiglio uscente la base pentastellata, insorta sui social contro l’accordo con quello che fino a inizio agosto il M5S chiamava “il partito di Bibbiano”, potrebbe capire l’operazione.

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I pentastellati intensificano il pressing, contando sui dem che non hanno pregiudiziali su Conte (da ultimo si è espresso il capogruppo renziano al Senato, Andrea Marcucci: «Non ci sono veti, vogliamo parlare di contenuti»)e anche sulle reazioni della rete. Sotto la diretta Facebook di ieri di Zingaretti - fanno notare in casa M5S - la maggior parte dei militanti chiede di far cadere il niet sul premier.

Il “sì” a Conte è il passaggio cruciale per il Movimento, anche per sciogliere il primo dilemma discusso al summit odierno: se, quando e con quale quesito chiamare gli iscritti al voto su Rousseau. Casaleggio, naturalmente, non ha dubbi: un passaggio sulla piattaforma, due volte sanzionata dal Garante per la privacy per la sua vulnerabilità, è a suo avviso obbligatorio, come avvenne in occasione del “referendum” sul contratto di governo con la Lega. Ma allora c’era stato più tempo per digerire l’intesa. Adesso bisognerebbe chiamare al voto seduta stante, domani al massimo, prima di tornare al Colle. Ottenere il via libera dai dem sul nome di Conte, secondo i big del Movimento, aiuterebbe a ottenere un verdetto positivo da parte dei 100mila iscritti. Che finora - va ricordato - hanno bocciato la linea dei vertici soltanto in un caso, nel 2014 quando i votanti si espressero a favore dell’abrogazione del reato di immigrazione clandestina. Per il resto, solo plebisciti.

L’altro nodo da affrontare riguarda il prosieguo della trattativa e la composizione della squadra. Di Maio, indebolito, assediato dalla componente interna vicina a Roberto Fico che reclama voce in capitolo e incarichi (in virtù di aver agito in questi 14 mesi come unico argine, seppur flebile, alla Lega di Salvini), chiede un mandato pieno. Sa che per strappare il nulla a osta a Conte premier dovrà cedere al Pd i ministeri più pesanti, oltre che la casella del commissario Ue. E sa pure che dovrà dosare i portafogli che restano cercando di accontentare tutte le esigenze nel M5S, compresa quella di salvaguardare i temi identitari. Con un obiettivo ulteriore: evitare di uscire da questa partita del tutto ridimensionato. All’esterno e soprattutto all’interno. Anche per questo vedrebbe di buon occhio per sé un ministero come la Difesa: sufficientemente prestigioso per non apparire una resa.

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