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Medicina, resta il nodo specialisti e il rischio bolla tra dieci anni

Gli effetti a lungo termine. Focus sulle borse post laurea. Atteso nel 2033 il crollo dei pensionamenti

di M.Bar. e E.Bru.

AdobeStock

3' di lettura

Garantire un numero adeguato di contratti di specializzazione, uno per ogni laureato in Medicina, e “orientare” i giovani aspiranti medici verso tutte le specialità: non solo quelle più attrattive (oggi sono soprattutto quelle che consentono gli extra con l’attività privata) ma anche quelle da cui oggi i nuovi camici bianchi fuggono perché troppo stressanti e poco remunerative, a cominciare dai reparti di pronto soccorso a quelli di terapia intensiva dove si riesce a malapena a riempire la metà delle borse per specializzarsi messe a disposizione. Ecco le prime sfide da affrontare subito se si vuole mettere a terra questa mini rivoluzione a cui sta lavorando il Governo che promette di laureare dal 2030 oltre 120mila nuovi aspiranti medici, al ritmo di 18-19mila l’anno.

E sì perché non basta la laurea per fare un medico. Dopo sei anni di studi gli aspiranti camici bianchi devono infatti specializzarsi vincendo un posto messo a bando dalle università per i corsi di specializzazione (dalla cardiologia alla chirurgia, dalla pediatria all’oncologia eccetera) che durano da tre a cinque anni, passaggio ineludibile se si vuole lavorare in ospedale. Una specializzazione necessaria anche per diventare medico di famiglia. Dal 2030 va dunque programmato un numero di borse adeguato a quello dei laureati che vanno orientati a tutte le specializzazioni come sottolinea il documento messo a punto dagli esperti nominati dalla ministra Bernini.

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Il rischio altrimenti è quello di riesumare il fenomeno del cosiddetto «imbuto formativo» che ha penalizzato tanti giovani laureati in medicina nel recente passato perché i posti per specializzarsi non erano sufficienti per tutti quanti. Gli esperti segnalano come negli ultimi anni il fenomeno sia stato «riassorbito» grazie all’aumento dei contratti per specializzarsi (con il record di 17.400 borse nel 2020), mentre per i prossimi anni si potrà ricorrere anche ai «fondi dei contratti non assegnati o abbandonati». Ma resta il nodo del loro finanziamento a lungo termine oltre al «problema di attrattività» di alcune specialità», perché la «mera azione di aumento del numero di posti per tali specialità non appare idonea a risolvere il problema della carenza di medici specialisti in tali branche», avverte il documento. Che suggerisce tra le altre cose un ripensamento della scuola di specializzazione per la medicina d’urgenza (quella dei pronto soccorso) e più in generale interventi di «valorizzazione della spinta vocazionale», ma anche di «regolamentazione della possibilità di scelta» dei posti a bando puntando anche alla «disincentivazione di scelte di “comodo” penalizzando gli eventuali abbandoni».

Fin qui il primo “tappo” subito dopo la laurea in Medicina. Perché come sottolineano anche alcuni esperti ascoltati dal ministero per redigere il documento c’è il rischio anche che dopo l’«imbuto formativo» si crei anche un «imbuto lavorativo» causato da una “bolla” di nuovi camici bianchi e cioè una offerta più alta della domanda che ci sarà. Questo effetto è legato sempre al fatto che i nuovi medici saranno pronti solo tra dieci anni (tra laurea e specializzazione), proprio in coincidenza con il crollo delle uscite per i pensionamenti dei medici dal Servizio sanitario che è previsto maggiore proprio tra il 2033 (quando sono attese solo 7.500 uscite) e il 2036. Un paradosso se si pensa alla grave carenza di medici di questi ultimi anni che è coincisa con il maxi esodo di pensionamenti che avviene tra i 65 e i 67 anni d’età e che prevede il picco della gobba pensionistica nel 2024 con circa 15.500 uscite.

Certo su questo conteranno anche le scelte della politica e la volontà di investire nella Sanità con più risorse e soprattutto più assunzioni di medici e infermieri (sulla cui carenza il documento si sofferma a lungo) a fronte di una popolazione che invecchia sempre di più con gli over 65 - oggi il 23,5% degli italiani - che «potrebbero rappresentare - ricorda il documento inviato al Mur - il 34,9% del totale della popolazione entro il 2050».

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