analisiVerso il congresso del Partito comunista

Ma le riforme vanno troppo a rilento

di Dario Tosetti e Giovanni Andornino

(AP)

5' di lettura

Perché l’attenzione di mercati e cancellerie si va focalizzando sul 19° congresso del Partito comunista cinese, i cui lavori si apriranno il 18 ottobre? La domanda è politica ma la risposta è economica e riguarda i nuovi indirizzi strategici della seconda economia del mondo. Oltre duemila delegati, espressione delle articolazioni territoriali e funzionali di un Partito a un tempo imponente (quasi 90 milioni di membri) ed elitario (l’accesso avviene a valle di una selezione sovente assai rigorosa) saranno chiamati a eleggere i circa 200 membri del prossimo Comitato Centrale. Tra questi verranno poi selezionati il nuovo Politburo (25 membri) e il Comitato Permanente, il vertice della piramide del Partito-Stato, oggi composto da 7 membri e guidato dal Segretario generale Xi Jinping. Nell’arco del primo mandato quinquennale, Xi, che è anche presidente della Repubblica e capo delle forze armate, ha accentrato nelle proprie mani più potere dei suoi predecessori, trasformando la propria posizione istituzionale da punto di equilibrio di una leadership collegiale a primus inter inferiores. Mentre si dà per scontata la sua riconferma al vertice, ci si chiede quale sarà l’impronta che imprimerà tanto sui principali organi del Partito-Stato, quanto sull’agenda di governo. Sarà indicato un suo erede designato come da prassi, o si apriranno speculazioni su un eventuale futuro terzo mandato di Xi nel 2022, con una clamorosa rottura delle dinamiche di avvicendamento dei leader invalse negli ultimi venticinque anni? L’accentramento di potere di questi anni si rivelerà o meno un autoritarismo propedeutico a quelle aggressive riforme economiche che si fanno via via più necessarie con il passare degli anni? Dopo quello che molti a Pechino considerano il “decennio perduto” della precedente dirigenza Hu Jintao–Wen Jiabao, lo stile di governo ambizioso ed energico di Xi viene considerato l’unica chance realistica per la Cina di conseguire i propri obiettivi, nonostante le pressioni ideologiche e le restrizioni amministrative con cui la società cinese è nuovamente chiamata a confrontarsi.

A poche settimane dal Congresso, la Cina ha ospitato nella città di Xiamen il summit dei Paesi Brics. Agevolato dal superamento della fase acuta di confronto tra Cina e India in merito alla contesa territoriale nell’area del Doklam, l’incontro tra i capi di Stato e di Governo delle cinque maggiori economie emergenti - Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica – è stato però offuscato dal nuovo test nucleare nordcoreano. La posizione cinese è assai difficile in questa partita. Pechino, infatti, ha condannato il programma di test nucleari e partecipa al regime delle sanzioni comminate dalle Nazioni Unite a carico della Corea del Nord, di cui continua però a essere il maggior partner commerciale, fornendo in particolare combustibili e macchinari. Il sostegno indiretto al regime di Pyongyang, le cui relazioni con Pechino sono peraltro sempre più compromesse, sta attirando sulla Cina pesanti critiche da parte dell’amministrazione Trump, che ha ventilato possibili misure contro i Paesi che non accettino di sottoporre la Corea del Nord a un embargo commerciale totale. Non vi sono vie d’uscita positive per la leadership cinese, salvo il mantenimento dell’attuale – insoddisfacente – equilibrio.

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Non stupisce che, in questo quadro, l’innovazione più significativa apportata da Xi alla politica estera cinese sia costituita da una nuova proiezione euroasiatica, che consente di lavorare sulle opportunità che possono essere generate dagli investimenti in connettività infrastrutturale, finanziaria, commerciale e digitale in Asia Centrale, Medio Oriente, Africa Settentrionale e, naturalmente, Europa. Su questa partita, che Pechino riassume nella dicitura “Belt and Road Initiative” l’Italia sta lavorando e dovrà saper trovare gli spazi che merita.

Del resto, questione nordcoreana a parte, l’attenzione di mercati e cancellerie sul Congresso di ottobre è motivata dal fatto che la Cina continua a contribuire in modo decisivo alla crescita economica globale. Dopo essere salito del 6,9% tendenziale nel primo e nel secondo trimestre dell’anno in corso, il Pil cinese dovrebbe subire una modesta decelerazione nella seconda metà del 2017, attestandosi a un +6,5% nel prossimo semestre.

Gli ultimi dati disponibili su domanda e offerta confermano effettivamente come il rallentamento previsto stia avendo luogo. A luglio le vendite al dettaglio sono aumentate del 10,4% annuo, nettamente meno dell’11% del mese precedente e ai minimi dall’ottobre 2016. A sua volta, la produzione industriale è aumentata del 6,4% tendenziale – il livello più basso da otto mesi – gravata dalla flessione dell’output automobilistico e dei settori legati all’edilizia. Che la frenata dell’attività economica in corso non preoccupi eccessivamente gli operatori è però evidenziato dal Pmi manifatturiero e dall’omologo indice relativo ai servizi, mantenutisi ambedue in territorio positivo e inaspettatamente saliti ad agosto a 51,6 e a 52,7.

Al netto delle dinamiche di breve periodo, colpisce come il Fondo monetario internazionale abbia scelto di insistere con un linguaggio sorprendentemente incisivo sull’urgenza di ripensare il modello di sviluppo cinese, insostenibile nel medio termine. Il peculiare esperimento di capitalismo di Partito-Stato incarnato dalla Cina oggi si regge su una dinamica di espansione del debito aggregato – la somma di debito privato e pubblico, ivi inclusi quello delle imprese di Stato e degli enti locali – tale da poter raggiungere il 300% del Pil nel 2022, mettendo strutturalmente a rischio la capacità di crescita del Paese. La partita è decisiva ed eminentemente politica. In un sistema in cui il Partito-Stato è al contempo l’arbitro e un giocatore imponente in ambito economico, le riforme necessarie a garantire un ciclo di espansione fondato su nuove premesse incontrano resistenze accentuate e diffuse. Quando, nel novembre 2013, il 3° Plenum dell’attuale Comitato Centrale del Partito Comunista - supremo organo di indirizzo politico della nazione – ufficializzò l’attesa “Decisione sull’approfondimento complessivo del processo di riforma” furono molti gli osservatori che esternarono ottimismo leggendo nero su bianco l’impegno delle autorità cinesi a far sì che le forze di mercato giocassero «il ruolo decisivo» nell’allocazione delle risorse nell’economia cinese. Da allora l’implementazione delle politiche di riforma non sembra però essersi realizzata con la celerità che ci si attendeva. Il settore privato in Cina, nonostante un dinamismo straordinario, opera tuttora in condizioni che ne ostacolano la piena competitività, dal disagevole accesso al credito, alla mancata contendibilità delle opportunità che si vengono a creare nei settori indicati come strategici, riservati ai grandi conglomerati di Stato. Conglomerati peraltro governati da quadri di Partito, secondo un modello di revolving doors che garantisce la rimarchevole integrazione del sistema politico-economico cinese, e che però rischia di determinare una distonia tra gli incentivi individuali di burocrati e decisori e le esigenze di un’economia che ambisce al primato globale. Per questo, a partire dal 18 ottobre prossimo, gli osservatori internazionali dovranno cogliere con tempestività, al di là delle ritualità del potere, verso quali orizzonti il Partito vorrà indirizzare l’economia e la società della Cina.

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