Macron, l’Europa e il ruolo dell’Italia
di Sergio Fabbrini
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Ora che la polvere si è depositata, è possibile vedere meglio i problemi politici emersi con la scelta francese di nazionalizzare la società cantieristica Stx per impedirne il controllo da parte della società italiana Fincantieri.
Quei problemi riguardano tre ambiti distinti (ma collegati): la politica di Macron, il futuro del governo europeo e il possibile ruolo dell’Italia. Cominciano dal primo. La scelta francese è poco giustificabile sul piano formale, ma non sorprendente sul piano sostanziale. Sul piano formale è disdicevole disonorare un accordo, come quello tra Stx e Fincantieri dell’aprile scorso, siglato con l’autorizzazione dei governi francese e italiano del periodo. Le relazioni esterne di un Paese non possono essere la variabile dipendente della propria politica interna, se quel Paese vuole essere considerato un attore affidabile nel sistema delle relazioni inter-statali. La contro-proposta francese (di un controllo a metà della nuova società cantieristica) è astrattamente ragionevole, ma la ragionevolezza astratta non fa i conti con la concretezza di un impegno disonorato. Prima della difesa degli interessi nazionali vi è la necessità di preservare la fiducia reciproca nei rapporti contrattuali.
Sul piano sostanziale, invece, la scelta di Macron non sorprende in quanto esprime una visione, e un sistema di interessi, circa il ruolo che la Francia vuole (riprendere a) esercitare in Europa. Dopo le intemperanze della presidenza Sarkozy e le incertezze della presidenza Hollande, l’establishment francese ha individuato nella presidenza Macron lo strumento per rilanciare la leadership (se non l’egemonia) del Paese a livello europeo. Si tratta di un establishment (formatosi nelle grandes écoles e variamente collegato alle istituzioni pubbliche) che considera la Francia un modello di modernità politica. È un establishment sicuramente anti-lepenista ed altrettanto sicuramente europeista. Il suo europeismo, però, consiste nella visione di un’integrazione europea guidata dai governi nazionali (al cui interno quello francese dovrebbe appunto svolgere un ruolo preminente, in particolare ora che non ha più la concorrenza della Gran Bretagna).
Un europeismo intergovernativo da non confondere con la visione sovranazionale (e tanto meno federale) dell’integrazione europea. Tuttavia tale europeismo non considera che l’integrazione intergovernativa non ha funzionato, come abbiamo ripetutamente visto negli ultimi anni. E soprattutto non riconosce che quella integrazione, invece di promuovere l’egemonia politica della Francia, ha piuttosto rafforzato la leadership gerarchica della Germania. E così continuerà ad essere, se Macron non supererà la visione intergovernativa. Insomma, non basta far suonare l'”Inno alla Gioia” per risolvere le ambiguità del proprio europeismo.
Questa precisazione ci porta al secondo ambito di analisi, il futuro della politica europea. Molti si sono dichiarati delusi dal comportamento di Macron. È sorprendente come continui a persistere l’idea che il rafforzamento del processo di integrazione dipenda dal successo elettorale di leader nazionali favorevoli a quel processo. Dietro tale idea c’è una visione organicistica della relazione tra politica nazionale e politica europea, come se la prima non si distinguesse dalla seconda (e viceversa). Si tratta di un’idea fallace che necessariamente produce aspettative fallaci. È bene che il governo francese sia guidato da un presidente non nazionalista, così come sarà bene che il prossimo governo tedesco continui ad essere guidato da una leadership favorevole all’integrazione europea.
Tuttavia, sarebbe bene anche non dimenticare che Macron è stato eletto (prima di tutto) per promuovere gli interessi del proprio Paese, così come il futuro cancelliere tedesco sarà (primariamente) tenuto a proteggere gli interessi del suo Paese. E fanno ciò sulla base della cultura nazionale rappresentata dai loro governi. È logicamente ingiustificabile assumere che da un’elezione nazionale possa emergere un leader europeo. Quest’ultimo potrà emergere solamente da un’arena politica europea che lo incentivi a promuovere un interesse europeo. Gli interessi nazionali (di 27 Paesi) e l’interesse europeo non possono coincidere. Anzi, se non li si tiene distinti, gli interessi dei Paesi più forti sono destinati a egemonizzare l’interesse europeo (con l’effetto di oscurarlo).
Con la scelta dello spitzenkandidaten nelle elezioni per il Parlamento europeo del 2014 si è cercato di promuovere una leadership europea. Tuttavia, l’esperimento ha funzionato solo a metà. Quella scelta ha reso politicamente più forte il presidente della Commissione europea (Jean-Claude Juncker). Contemporaneamente ha però rafforzato la determinazione dei governi nazionali a tenere la Commissione fuori o ai margini dei principali dossier europei. Il Consiglio europeo dei capi di governo ha infatti monopolizzato il controllo sulle principali decisioni politiche, lasciando alla Commissione (nel migliore dei casi) il compito di renderle operative. Occorre cambiare strada, dando una legittimazione popolare (anche se non diretta) al presidente del Consiglio europeo, così da costituire un esecutivo duale tra quest’ultimo e il presidente della Commissione europea. Due presidenti eletti in arene europee distinte, ma entrambi incentivati a promuovere un interesse europeo.
Fino a quando non ci si libererà dall’idea di considerare l’interesse europeo come la proiezione degli interessi nazionali, sarà difficile fare uscire l’Ue dalla trappola intergovernativa. Ciò richiederà un atto politico di natura costituzionale attraverso il quale il progetto europeo viene separato dalle politiche nazionali. Abbiamo visto le ambiguità della Francia in proposito. Sappiamo anche che la Germania ha interesse a lasciare le cose come stanno, in quanto l’avvantaggiano.
E l’Italia? È questo il terzo ambito da considerare. Il governo italiano sta tenendo una posizione critica (ampiamente condivisa anche sul piano internazionale) nei confronti delle scelte del governo francese. Bene così. Per di più, l’Italia sta mostrando di avere capacità operative di prim’ordine in dossier delicati come quello dell’immigrazione. Non manca all’Italia, dunque, una élite governativa qualificata che si fa rispettare. Tuttavia, ciò che continua a mancare all’Italia è un sistema politico che garantisca continuità e coerenza all’azione dei governi. Le istituzioni italiane sono barocche e i partiti italiani frantumati. Come abbiamo visto l’altro ieri in Parlamento, a fronte di scelte cruciali come la politica migratoria, sia il centro-sinistra che il centro-destra si sono divisi al loro interno. A tutto vantaggio della demagogia populista dei 5 Stelle. Peraltro, ricostruire quelle coalizioni, oggi, vorrebbe dire condannarci all’instabilità governativa, domani. Senza governi stabili e coesi, il nostro Paese rischia di essere schiacciato dalla logica intergovernativa. Ma soprattutto, senza l’iniziativa italiana è improbabile che emerga un’alternativa politica a quella logica.
Il nostro Paese è l’unico, tra i più grandi, che può sostenere il progetto di una unione tra eguali, basato sulla separazione tra il livello nazionale e quello sovranazionale. L’Italia, infatti, non ha mai avuto una cultura europea di tipo intergovernativo. Le sue caratteristiche strutturali le impedirebbero peraltro di giocare un ruolo egemonico nelle istituzioni intergovernative europee. Per questo motivo, i contrasti che abbiamo avuto oggi con la Francia, o che avemmo ieri con la Germania, dovrebbero spingere l’élite politica più responsabile a mettere in sicurezza il nostro sistema istituzionale, a concordare una strategia di riduzione del nostro debito pubblico (che continua ad ipotecare le nostre scelte) e a definire una condivisa prospettiva di riforma delle istituzioni europee.
Occorre aprire un dibattito nazionale su come raggiungere quegli obiettivi, senza assumere che non ce la faremo. Se altri Paesi difettano per eccessiva sopravalutazione di sé stessi, noi, infatti, commettiamo spesso l’errore opposto.
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