L’ATTENTATO DEL 2016 

Mafia: «Antoci vittima ma non di Cosa nostra»

Approvata la relazione della commissione Antimafia dell’Assemblea regionale siciliana sull’attentato del 2016 nei confronti dell’allora presidente del Parco dei Nebrodi nel mirino per il protocollo che bloccava le frodi sui fondi europei destinati all’agricoltura. Sotto accusa gli investigatori e i magistrati. Claudio Fava: «Nessun depistaggio, indagini condotte male»

di Nino Amadore

La lettera anonima inviata a nel dicembre 2014 al presidente del Parco dei Nebrodi Giuseppe Antoci (foto Ansa)

4' di lettura

Cu fu? Chi è stato a organizzare ed eseguire l’attentato nei confronti di Giuseppe Antoci, l’allora presidente del Parco dei Nebrodi in Sicilia, nella notte tra il 17 e 18 maggio del 2016?  Chi voleva morto il presidente di un Parco che aveva ideato un protocollo per bloccare la speculazione mafiosa sui Fondi Ue destinati all’agricoltura?

Dopo cinque mesi di lavori con audizioni di magistrati, giornalisti, testimoni e dello stesso Antoci, la commissione regionale Antimafia guidata da Claudio Fava arriva a una conclusione, anzi a una mezza conclusione: è plausibile che non sia stata la mafia.

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E dunque chi è stato? A giudizio della commissione restano attuali tre ipotesi: un attentato mafioso fallito, un atto puramente dimostrativo, una simulazione. In tutti e tre i casi Antoci è una «vittima (bersaglio della mafia nelle prime due; strumento inconsapevole di una messa in scena nella terza). Nessuno si può permettere di mettere in dubbio la qualità del lavoro fatto da Antoci».

E quindi siamo punto e capo: cu fu, chi è stato? C’è una certezza, secondo Claudio Fava, in questa vicenda «non c’è stato alcun depistaggio, piuttosto vi sono state carenze investigative. Di fronte a un’ipotesi stragista, quale è quella dell’attentato ad Antoci, si attiva la squadra mobile di Messina e il commissariato di Sant’Agata di Militello cui appartenevano quattro dei poliziotti intervenuti quella notte.

È come se per l’attentato di Capaci si fosse attivato il commissariato di Mondello. Ora spetta alla magistratura continuare a lavorare per fare chiarezza». Eppure la vicenda è stata costellata di anonimi, di veleni e anche di strane morti: quella di Tiziano Granata, uno dei poliziotti intervenuto quella notte insieme al vicequestore Daniele Manganaro.

Granata ha sempre ribadito la ricostruzione dei fatti e lui, che era un tipo silenzioso, ha più volte ricostruito la vicenda confermando tutto: gli uomini in tuta mimetica, gli spari, le bottiglie molotov. E dunque? «Può essere che si sia reso conto successivamente che si sia trattato di una messinscena» dice Fava.

Il che non aiuta certo a comprendere meglio la questione ma getta ancora altre ombre in questa vicenda. Sotto accusa sembrano essere gli investigatori: «Non è comprensibile - si legge nella relazione - la ragione per cui non sia stato disposto dai questori di Messina e dai Pm incaricati dell’indagine un confronto tra i due funzionari  di polizia che su molti punti rilevanti hanno continuato a contraddirsi e a offrire ricostruzioni opposte».

Uno dei due funzionari è Manganaro, l’altro è Ceraolo (oggi in pensione) il quale è accusato di aver diffuso gli anonimi poi utilizzati da alcuni cronisti. Ma viene chiamato in causa dalla Commissione soprattutto per la ricostruzione della dinamica dell’attentato e per aver riferito presunte confidenze (sempre smentite dall’interessato) da parte di Granata (il poliziotto morto misteriosamente per arresto cardiaco).

È impensabile, sostiene la commissione Antimafia, «che di un attentato di siffatta gravità nulla sapessero (stando ai risultati delle intercettazioni ambientali e al lavoro di intelligence investigativa) la criminalità locale né le famiglie di Cosa nostra interessate al territorio nebrodideo (Barcellona Pozzo di Gotto, Tortorici, Catania)».

Bisogna pur ricordare che per l’attentato sono state indagate 14 persone per le quali la procura di Messina ha chiesto e ottenuto l’archiviazione. Ma è interessante ciò che racconta alla commissione Antimafia Angelo Cavallo, oggi procuratore a Patti in provincia di Messina ma a lungo alla procura antimafia peloritana: «Io sono propenso a ritenere che attentato ci fu. Fu un attentato programmato così a livello di, come dire, di ritorsione da parte di alcuni soggetti dell’area che avevano subito danni (dal protocollo Antoci ndr). Questo attentato - prosegue il magistrato - in un certo senso...forse determinate famiglie mafiose lo ebbero a subire...capirono bene che non aveva alcun senso reagire neanche nel senso di punire, come a volte si legge nei libri di mafia, chi compie queste azioni senza il preventivo consenso, semplicemente perché subito dopo si è messa in moto una macchina del fango molto efficace mi riferisco agli esposti anonimi, mi riferisco agli articoli di giornale. Quindi la mafia, semmai si è posta il problema di cosa fare a questi soggetti, ha ben capito che alla luce di quello che stava succedendo non c’era più bisogno di fare nulla». Dunque secondo il magistrato se non è stata la mafia sicuramente Cosa nostra ha poi tollerato.

Articolata la replica di Antoci: «Ho depositato alla Commissione Regionale una relazione di 27 pagine, con 15 allegati di atti del procedimento, che sono di una chiarezza disarmante, unite ad intercettazioni telefoniche chiarissime e pesantissime. Ho chiesto di renderla integralmente pubblica senza tagli e omissioni, perché ritenevo che le persone dovessero sapere e comprendere tutto. Risultato? Solo un sunto. Ma perché? Devo dunque pagare il fatto di aver colpito con un Protocollo oggi Legge e con un’azione senza precedenti la mafia dei terreni? Non ho pagato abbastanza, rischiando la vita e perdendo la libertà mia e della mia famiglia? Insomma, alla fine ecco il risultato della Commissione: tre tesi, a Voi la scelta!».

Secondo Antoci la commissione «ha prestato il fianco, attraverso una relazione ove si evidenziano più tesi, al mascariamento e alla delegittimazione, utilizzando audizioni di soggetti che non citano mai le loro fonti bensì il sentito dire o esposti anonimi che la magistratura, dopo attenta valutazione e trattazione, ha dichiarato essere calunniosi. Senza considerare – continua Antoci - che alcuni dei soggetti auditi hanno in corso procedimenti giudiziari sul piano generale, e in particolare per diffamazione sull’accaduto, o procedimenti passati, conclusi con la penale affermazione del reato di falso».

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