L’intervista

Malagò: «Dura lottare con mani legate, ora piani industriali e ius soli sportivo»

Il Presidente del Coni Giovanni Malagò guarda oltre Tokyo 2020 e spiega perché per lo sport italiano è giunto il momento di cambiare registro

dal nostro inviato a Tokyo Marco Bellinazzo

Tokyo 2020, le medaglie dell'Italia

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4' di lettura

Nell’afa asfissiante che assedia Casa Italia, alla Takanawa Manor House, infittita dal frinire incessante delle cicale, il presidente del Coni, Giovanni Malagò, parla al Sole 24 Ore senza perdere d’occhio lo schermo su cui scorrono le immagini delle gare degli atleti italiani. «Molti pensano che i campioni nascano per caso. Magari accadeva in passato. Oggi dietro un successo olimpico ci sono anni di lavoro e di programmazione. Basta guardare a quello che hanno fatto Regno Unito e Giappone», riflette a voce alta. Malagò non intende adagiarsi sul copioso bottino di podi (con 10 ori e la perla dei 100 metri) già conquistati a Tokyo. « Il problema è che noi lottiamo con le mani legate dietro la schiena tra burocrazia e ipertrofia amministrativa. Ma questo è il momento di cambiare registro.

Certo, lo sdoppiamento tra Sport e Salute e il Coni non aiuta.

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Se nelle aziende occorre prendere decisioni rapide, nello sport è indispensabile essere ancora più veloci. Faccio un esempio: per Tita e Banti, che hanno appena vinto l’oro, a fine anno iniziano le qualificazioni per Parigi 2024. Bisogna provvedere alle nuove barche, ai contratti con i tecnici, eccetera. Le Federazioni devono attivarsi in accordo con il Coni, sulla base di finanziamenti distribuiti da Sport e Salute che deve tener conto a sua volta del nostro parere. Un meccanismo oggettivamente complicato e antiproduttivo. Invito chiunque voglia verificare a trascorrere una settimana nel mio ufficio. A proposito di programmazione le faccio un altro esempio per Milano-Cortina.

Milano-Cortina è tra quattro anni.

Appunto. Siamo già in ritardo. E ho pregato il sottosegretario Valentina Vezzali di attivarsi per garantire alla Federazione sport invernali e alla Federazione sport del ghiaccio degli stanziamenti ad hoc per poter formare i giovani chiamati a rappresentare l’Italia in specialità per le quali adesso non abbiamo esponenti di spicco.

Qual è il suo modello ideale di formazione sportiva?

«È chiaro che il modello anglosassone è quello che preferisco. Ma il binomio scuola-università su cui fa leva da noi non esiste. Se riusciamo a competere ugualmente dobbiamo ringraziare l’associazionismo di base che rappresenta la spina dorsale della pratica sportiva.

E il ruolo del Coni? Le somme destinate alla preparazione olimpica (45 milioni all’anno) sono sufficienti?

Paradossalmente dico che ormai non è neppure una questione di soldi. Ma di funzionalità del sistema che oggi non c’è per via di una riforma che senza creare le condizioni per lo sviluppo della base è andata a incidere sul vertice del sistema, solo per ragioni di potere da ripartire diversamente, e solo perché lavorare sul futuro, seminare, non dà consenso nell’immediato. Un calcolo, mi lasci dire, miope. In ogni caso, non ci tiriamo indietro e facciamo la nostra parte, anche per fare ricavi supplementari che tengano in equilibrio i nostri conti.

Ha senso la contrapposizione sport di base/ sport d’élite?

Il nostro compito è fare di tutto per portare gli atleti, dalla base, di cui dobbiamo necessariamente occuparci, al vertice, mettendo a disposizione strutture, centri federali e le migliori competenze tecniche e mediche. Molti dei ragazzi che sono qui a Tokyo vengono dai programmi che abbiamo messo a punto portandoli a gareggiare alle Olimpiadi giovanili di Nanchino 2014 e Buenos Aires 2018.

Dopo l’oro di Marcell Jacobs, che sarà portabandiera dell’Italia nella cerimonia di chiusura, lei ha parlato di “ius soli sportivo”, attirando le critiche via social del leader della Lega Matteo Salvini.

Con Salvini ho un buon rapporto e ci siamo anche sentiti per spiegarci. Io non chiedo una nuova legge, ma devo ribadire che ho centinaia di richieste da parte di tutte le Federazioni relative ad atleti nati e formati in Italia, che a 18 anni stentano però a ottenere la cittadinanza e che finiscono per abbandonare lo sport o acquisire la nazionalità del paese dei genitori o, peggio, di paesi terzi che vanno a caccia di talenti. Ritengo che almeno per quegli atleti di prospettiva che a livello juniores abbiano vestito la maglia azzurra, debba essere sburocratizzato l’iter di riconoscimento della cittadinanza, che può durare anni.

Intanto, però, lo sport e il calcio italiano messi alle corde dalla pandemia e in sofferenza finanziaria hanno ingaggiato un braccio di ferro con il Governo e il Cts.

Sono al fianco del presidente della Figc Gabriele Gravina. Vede, c’è un approccio che frena il Governo, laddove ritiene che gli aiuti alla Serie A sarebbero interpretati dall’opinione pubblica come un sostegno ai ricchi stipendi dei calciatori. Ma non è così. I ristori, le agevolazioni fiscali, la richiesta di una riapertura più ampia degli stadi, ovviamente compatibile con la sicurezza sanitaria, sono da equiparare alle legittime richieste di altri settori industriali. E sostenere il calcio professionistico significa proteggere tutto lo sport. I finanziamenti all’attività olimpica come allo sport di base e alle federazioni derivano dal gettito fiscale prodotto prevalentemente dalla Serie A, parliamo del 32% fissato dalla legge, di un prelievo pari a 1,2/1,3 miliardi all’anno. A me come a tutti i presidenti federali è chiaro che più il nostro calcio è competitivo e incassa, più ne guadagna l’intera filiera sportiva. Forse non a tutti lo è.

Tanto che si vietano le sponsorizzazioni provenienti dal betting.

Altro paradosso. Si privano di risorse i nostri club, per una scelta demagogica, e li si penalizza nella competizione con altri paesi che non hanno tali divieti. Ecco perché dico che lo sport italiano è costretto a competere con le mani legate dietro la schiena. È il momento di cambiare passo.

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