la carta di Business Roundtable

Manca lo Stato nella svolta etica di Wall Street

di Gianni Toniolo

Ray Dalio (Imagoeconomica)

3' di lettura

«Sono un capitalista, ma anch’io credo che il capitalismo sia ammalato», lo dice Ray Dalio, capo di Bridgewater, uno degli hedge funds americani di maggiore successo. È dagli anni Trenta che non si sentivano giudizi tanto severi da parte di esponenti della finanza statunitense.

Lunedì scorso, la Business Roundtable, che riunisce quasi 200 tra i principali capi azienda statunitensi, ha diffuso una dichiarazione dal titolo «Lo scopo dell’impresa» alla quale hanno dato, insolitamente, grande rilievo i media internazionali e italiani, definendola rivoluzionaria. La ragione è semplice: nell’ultimo quarto di secolo la stessa Roundtable ha sempre affermato che lo scopo dell’impresa era soddisfare unicamente i propri azionisti, massimizzando il profitto. L’idea, sostenuta da buona parte della teoria economica, era che attraverso la “creazione di valore” l’impresa svolgesse il proprio unico compito sociale, quello di aumentare la ricchezza, lasciando ad altri attori e istituzioni il compito di distribuirla, purché in modo da non intralciarne la crescita.

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La dichiarazione odierna è rivoluzionaria perché afferma che la creazione di valore per gli azionisti non è più la principale priorità dell’impresa la quale deve invece focalizzare la propria attenzione sulla promozione di un’«economia che serva tutti gli americani». Un mese fa, in vista del G7 di Biarritz, anche Medef, la federazione degli imprenditori francesi, aveva promosso un documento congiunto dei rappresentanti delle imprese e dei lavoratori dei sette Paesi affermando che «l’economia globale non può essere sostenibile se esclude dai benefici della crescita una larga parte della popolazione».

Si tratta di idee che, in varie forme, sono intrinseche alla cultura delle socialdemocrazie europee, dell’economia sociale di mercato, della dottrina sociale della Chiesa cattolica. La novità sta nel fatto che esse emergano oggi nel cuore stesso del capitalismo organizzato.

John Maynard Keynes arrivò a definire il capitalismo come «moralmente ripugnante». Eppure contribuì come pochi altri al pensiero che salvò quello stesso capitalismo dalla rovina degli anni Trenta. Non fu una contraddizione. Il capitalismo è stato ed è il solo sistema in grado di fare crescere rapidamente la produzione di beni e servizi, soprattutto stimolando l’invenzione, l’innovazione, il progresso tecnico. Lasciato a se stesso si è però dimostrato incapace di diffondere equamente i benefici della crescita. L’eredità degli anni 30 e della guerra consistette nel creare un capitalismo regolato e uno stato sociale che ambiva a offrire a tutti i cittadini i benefici della pensione, dei sussidi alla disoccupazione, della sanità e dell’istruzione gratuite. Keynes e William Beveridge, seppure entrambi non ben compresi e infine traditi, ispirarono la rinascita dell’economia europea nei “trenta (anni) gloriosi” seguiti al conflitto mondiale.

Oggi sembra che all’arroganza intellettuale del capitalismo statunitense, cresciuta soprattutto nei “ruggenti anni 90” si sostituiscano, nel suo stesso cuore, dubbi sulla vitalità e sostenibilità del sistema sinora conosciuto. In sé è una buona notizia, anche se, per un giudizio informato bisognerà attendere i dettagli che mancano nel documento della Roundtable. Intanto possiamo chiederci perché queste dichiarazioni non siano nate, come negli anni 30, nel momento più duro della crisi ma compaiano oggi, al culmine di una delle più lunghe - e forse inclusive - fasi espansive dell’economia statunitense. Non è stata la disoccupazione di undici anni fa a ispirarle ma è stata la crescita del populismo o magari il timore che le elezioni del 2020 consegnino la Casa bianca a un Sanders o a una Warren.

Agli occhi di un osservatore europeo, ma l’ha notato per primo l’ex segretario al Tesoro americano, Larry Summers, colpisce nella dichiarazione della Roundtable l’assenza di un importante stakeholder, lo Stato. Sembra quasi che le imprese si sentano oggi tanto grandi e dotate di risorse tanto abbondanti da ritenere di poter fare tutto da sole: produzione e investimenti (profitti), promozione del benessere dei lavoratori e delle comunità in cui operano, tutela del creato, auto-regolazione della qualità dei prodotti. Ma è difficile pensare che queste azioni, pur necessarie e benvenute, possano essere socialmente sostenibili marginalizzando o ignorando i poteri pubblici, eletti democraticamente e tenuti a rispondere agli elettori. Quanto sono convinti gli autori della dichiarazione che lo Stato, un buono Stato, capace di coordinare, regolare, sancire, tassare e spendere sia indispensabile alla creazione della società inclusiva che le imprese vogliono ora promuovere? In attesa di avere maggiori dettagli e di vedere come si comporteranno le grandi fortune americane nel finanziamento della prossima campagna elettorale, sembra questa la principale domanda che pone la promettente svolta annunciata da quasi 200 grandi imprese americane.

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