«Mandibules», la follia surreale di Quentin Dupieux
di Andrea Chimento
3' di lettura
Il cinema di Quentin Dupieux non passa mai inosservato: non fa eccezione «Mandibules», il suo ultimo lavoro, presentato fuori concorso alla Mostra di Venezia.
Dupieux, conosciuto anche con lo pseudonimo di Mr. Oizo per la sua attività di dj musicale, prosegue nel proporre pellicole dal taglio surreale e grottesco, come aveva fatto anche col precedente «Doppia pelle», presentato al Festival di Cannes 2019.
In «Mandibules» i protagonisti sono due amici decisamente squinternati che, pronti per una nuova “missione”, trovano nel bagagliaio di un'automobile una mosca gigante e hanno subito un'idea: provare ad addestrarla per realizzare un ricco bottino.
Fin dal soggetto di partenza, si coglie come siamo pienamente nelle corde del regista francese, che ama arricchire di colpi di scena folli le sue narrazioni, creando spesso personaggi al limite dell'idiozia.
Nonostante questo, però, i suoi lavori stanno diventando sempre più brillanti e divertenti, oltre che dotati di un tocco stilistico sempre riconoscibile.
Rispetto alla maggior parte dei suoi film precedenti, spesso venati da tonalità cupe e basati su tematiche inquietanti, in questo caso siamo di fronte a una commedia sull'amicizia, più leggera, ma ugualmente capace di lasciare anche più di uno spunto di riflessione.
Indubbiamente possono esserci delle criticità per alcuni passaggi del tutto sopra le righe, ma è proprio il gioco di Dupieux e, se si sta al gioco, gli amanti di un cinema anticonvenzionale e alternativo lo troveranno irresistibile.
The World To Come
In concorso ha trovato invece spazio «The World to Come» di Mona Fastvold, a oggi uno dei film più belli e importanti dell'intera Mostra di Venezia.
Ambientato a metà dell'Ottocento, il film vede protagonista Abigail, una donna che ha da poco subito una grave perdita e annota tutte le sue emozioni su un diario. Con l'arrivo della primavera, incontra Tallie, donna estroversa che si è appena trasferita con il marito in una fattoria nelle vicinanze di quella in cui abita Abigail con il suo compagno Dyer.
L'amicizia tra le due cresce sempre di più, fino a sfociare in una vera e propria relazione appassionata e tormentata.
Prendendo spunto da un racconto di Jim Shepard (anche co-sceneggiatore insieme alla regista), Mona Fastvold dirige un'opera di grande pregnanza narrativa, dal taglio quasi sempre epistolare, girata in pellicola e capace di trasmettere un'atmosfera da cinema d'altri tempi.
Sempre in crescita col passare dei minuti, è un lungometraggio che riesce a emozionare e, soprattutto, a costruire personaggi credibili e sfaccettati: notevole, in particolare, la figura di Dyer, interpretato da Casey Affleck, marito silenzioso e in apparenza distaccato, che dimostra con piccoli dettagli tutta la sua umanità.
Ottimo anche il lavoro di Katherine Waterston (Abigail) e Vanessa Kirby (Tallie) in questo lungometraggio inoltre valorizzato da un gran lavoro di montaggio visivo e sonoro.
I figli del sole
Infine, una menzione per un lavoro invece più trascurabile, «I figli del sole» di Majid Majidi.
Presentato in concorso, il film iraniano si concentra sul dodicenne Ali e su alcuni suoi amici: un gruppo di ragazzini che cerca di sopravvivere e sostenere la propria famiglia, tra lavoretti in un garage e piccoli crimini per racimolare in fretta del denaro. La vita di Ali potrebbe cambiare quando, improvvisamente, gli viene affidato il compito di ritrovare un tesoro nascosto sottoterra.
Pellicola ad alto tasso retorico, «I figli del sole» utilizza furbi mezzi narrativi per provare a coinvolgere ed emozionare, ma finisce così per risultare poco spontanea e troppo studiata a tavolino.
I temi in campo (a partire da quello di ragazzi giovanissimi costretti a lavorare) sono importanti, ma non basta per togliere la sensazione di aver assistito a un prodotto molto calcolato e che sa troppo di già visto.
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