Mappe dell’Inquietudine nella terza Biennale di Fotografia di Chennai
Lontano dall'Italia, la fotografia riflette sul suo ruolo nella contemporaneità e sul passato post-coloniale
di Filippo Maggia
I punti chiave
4' di lettura
S'intitola “Mappe dell'Inquietudine” la terza edizione della Biennale di Chennai, metropoli indiana di quasi cinque milioni di abitanti conosciuta come Madras sino alla fine degli anni novanta del secolo scorso. Prevista per il dicembre 2020, come molti altri eventi é stata rinviata di un anno esatto causa pandemia da Covid-19, inaugurando infine lo scorso 9 dicembre in una forma ibrida: in presenza nelle quattro sedi principali con ingressi contingentati, e online, grazie a tour condotti dagli stessi curatori, formula che permette la sua fruizione anche a un pubblico internazionale.
La mappa della storia
Visitabile sino al 6 febbraio 2022, propone le opere di ben 34 artisti, in maggioranza indiani – alcuni di questi li troveremo in una mostra dedicata all'India in programma a Trieste, al Magazzino delle Idee nell'autunno 2023 – con altri interessanti autori internazionali. La curatela è stata affidata a un team composto da due curatori indiani e due tedeschi: Arco Datto e Bhooma Padmanabhan, Boaz Levin e Kerstin Meincke, scelta che vuole sottolineare la volontà dell'istituzione promotrice, Chennai Photo Biennale Foundation, di “allargare” il dibattito a una visione condivisa, indagando temi di stretta attualità per il subcontinente indiano come per il mondo intero.
Nello statement di presentazione del progetto, i curatori specificano come il titolo della Biennale derivi “dalla storia della città, sede del Grande Rilievo Trigonometrico del 1802, primo tentativo coloniale di misurare e mappare il subcontinente, e dalla successiva pubblicazione dell'atlante in otto volumi intitolato “The People of India”, pubblicato tra il 1868 e il 1875, una sorta di esercizio di sorveglianza imperiale dopo la ribellione del 1857.
Il passato ritorna
Con oltre 400 fotografie etnografiche di tribù e caste locali, organizzato dal Dipartimento Politico e Segreto, le fotografie dell'atlante divennero un mezzo per documentare e classificare la presunta lealtà dei sudditi classificati in tribù e caste. La Società Fotografica di Madras, una delle prime istituzioni di questo tipo al mondo è stata fondata nel 1857. Quanto il vissuto post-coloniale sia oggi uno dei temi dominanti nel panorama culturale indiano è facilmente riscontrabile nella produzione artistica contemporanea di autori appartenenti a generazioni fra loro anche distanti. Un'eredità difficile da assimilare e dalla quale pare quasi impossibile alienarsi tant'è che periodicamente si riversa, mutata e adattata, sulla vita politica e sociale dell'India moderna rinnovando i medesimi errori allora commessi, di discriminazione e settarismo anzitutto, oggi principalmente rivolti verso le minoranze musulmane.
Le ferite ancora aperte
Non stupisce dunque l'impegno profuso da diversi autori nel riprendere eventi del passato per mostrarli come monito e rammentare al tempo stesso quanto alcune istanze siano ferite ancora aperte e laceranti, destinate a ripetersi in un Paese tanto grande e così densamente popolato da decine e decine di etnie fra loro anche molto differenti, per lingua, usi, costumi, religione. Gauri Gill raccoglie testimonianze di amici e colleghi artisti sui tragici eventi del 1984, quando fu attaccata brutalmente la comunità sikh a Tilak Wihar, Trilokpuri, e altri quartieri di New Delhi, e utilizza questi ricordi come “didascalie” alle immagini allora realizzate per le principali pubblicazioni e ora utilizzate per creare un archivio di ricordi e conversazioni, per non dimenticare. Rohit Saha raccoglie in un libro fotografie di “paesaggi” ove tra il 1979 e il 2012 sono stati compiuti 1.528 omicidi mai realmente risolti, definiti ufficialmente come “scontri fittizi” con le Forze Armate. Siva Sai Jeevanantham indaga sui desaparecidos nello stato del Jammu e Kashmir ove l'autonomia dei residenti è stata via via erosa a favore di quella che viene definita dall'artista come “occupazione istituzionale”. Soumya Sankar Bose riprende il tragico massacro di Marichjhapi del 1979, quando migliaia di rifugiati bengalesi di casta inferiore vennero uccisi nel tentativo di resistere sull'isola di Marichjhapi, dove erano stati sfollati dall'India centrale per venir nuovamente rimandati negli aridi territori interni al fine di non compromettere le prospettive di ripresa economica di quella zona: “dobbiamo guardarci intorno, ammonisce Sankar Bose, le cose in India non sono affatto cambiate”.
La madre terra
Altro tema indagato dalla Biennale è l'ambiente, di eco sicuramente più universale, come testimoniano i lavori della francese Anaïs Tondeur che raccoglie i sedimenti di carbonio all'interno di mascherine in una spedizione di 15 giorni dal nord al sud del Regno Unito; l'inglese di origine colombiana Carolina Caycedo compone un libro che viene esposto come una fisarmonica aperta dal titolo «Serpentine River Book», ove sono combinate immagini d'archivio, mappe, poesie, testi, foto satellitari con immagini e testi dell'artista, materiali raccolti durante la collaborazione dell'artista con comunità messicane, colombiane e brasiliane colpite dall'industrializzazione e privatizzazione dei sistemi fluviali; commovente il lavoro di Senthil Kumaran Rajendran sugli elefanti, simbolo per eccellenza dell'India, oggi costretti a vivere lungo corridoi recintati a causa della progressiva deforestazione che avanza in tutto il subcontinente.
Le minoranze e le diversità
Il lavoro e la protezione delle minoranze etniche, i flussi migratori - di persone, ma anche di merci e capitali a tutto favore delle grandi multinazionali -, l'appartenenza al luogo e l'identità culturale da difendere, sono al centro delle ricerche di altri artisti: il francese Arthur Crestani dimostra come possono convivere esigenze economiche e bisogni collettivi ritraendo il quartiere low-cost Aranya realizzato dall'architetto Balkrishna Doshi; il giovane indiano Saranraj, nel documentare gli scavi archeologici di Keeladi che hanno riscritto la storia Tamil nel subcontinente, sottolinea il ruolo avuto dalla forza lavoro fornita dai villaggi locali, come se gli abitanti del luogo avessero voluto riappropriarsi delle loro origini e identità storica; rituali sciamanici e performance sono al centro dell'indagine di Sridhar Balasubramanium, un intreccio indissolubile tra terra e uomo, tra anima e materia che può mutare nelle forme restando però sempre identico nel suo profondo significato di reciproca appartenenza.
Temi dunque comuni a tutto il mondo, affrontati con assunzione di responsabilità e consapevolezza del ruolo che oggi l'artista deve avere. Film, video, fotografie e un “giornale” online in due edizioni che presenta interventi di altri artisti compongono l'ampio ventaglio di proposte che animano questa edizione della Biennale di Chennai assolutamente da visitare, opere che esprimono timori e pongono domande, generando quell'inquietudine che la pandemia mondiale riesce solo ad accentuare. Quale risposta possiamo immaginare? Forse una forma di solidarietà universale, uno stare insieme senza confini e differenze di genere.
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