DECRETO CRESCITA

Marchi storici, registro e modello francese: chi chiude deve trovare l’acquirente

di Carmine Fotina

Il ministro Di Maio: le delocalizzazioni vanno fermate

3' di lettura

Si ispira alla legge francese “Florange” la norma che punta a impedire a un’azienda di chiudere la produzione e licenziare in Italia, spostarsi all’estero e contemporaneamente mantenere il marchio, magari di prestigio storico e icona del made in Italy.

La misura è stata introdotta nel decreto crescita varato ieri, con la formula “salvo intese”, dal consiglio dei ministri. Il ministro dello Sviluppo economico (Mise), Luigi Di Maio, l’ha battezzata “norma Pernigotti anche se paradossalmente, in quanto non retroattiva, non potrà applicarsi al caso dell’azienda del cioccolato che ha subito la decisione della proprietà turca Toksoz di chiudere la produzione di Novi Ligure.

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Di sicuro la norma esce dal consiglio dei ministri ridimensionata rispetto alle prime ipotesi. Innanzitutto, un primo tentativo di affrontare la materia era stato fatto nelle settimane scorse con una proposta di legge della Lega presentata direttamente dal leader del Carroccio Matteo Salvini, molto ambiziosa nei contenuti fino a prevedere la decadenza dal diritto all’utilizzo del marchio. Una formulazione giudicata da alcuni esperti del settore a forte rischio di incostituzionalità.

Contemporaneamente, la materia veniva approfondita dai tecnici del ministero dello Sviluppo economico che preparavano una prima versione per il decreto crescita, in cui c’era anche la previsione di un commissariamento dell’azienda di fronte al mancato rispetto di determinati obblighi.

Anche questa declinazione però è stata rivista, perché giudicata ugualmente troppo punitiva e a rischio fortissimo di ricorsi da parte delle imprese. Così la norma ha perso parte della sua potenziale efficacia.

Iscrizione volontaria o d’ufficio da parte del ministero

Ricapitolando, presso l’Uibm (Ufficio italiano brevetti e marchi) sarà istituito un registro speciale dei marchi storici, per quelli registrati da almeno 50 anni o per i quali sia possibile dimostrare l’uso continuativo da almeno 50 anni. Potranno iscriversi i titolari o licenziatari esclusivi che abbiano un’unità produttiva localizzata in Italia. Ma l’Uibm può anche procedere d’ufficio nel caso in cui vi sia stata notizia che l’impresa titolare o licenziataria intenda chiudere il sito produttivo di origine o comunque quello principale, sia per cessazione dell’attività sia per delocalizzazione all’estero, con conseguente licenziamento collettivo.

Il nuovo Fondo e quello cancellato

Per la salvaguardia dei livelli occupazionali e la prosecuzione dell’attività produttiva nasce presso il ministero il Fondo per la tutela dei marchi storici di interesse nazionale. La norma mette complessivamente a disposizione per il progetto marchi storici 100 milioni a valere sulle disponibilità del Fondo sviluppo e coesione. Una fonte di copertura che però può creare complicazioni visto che ha un vincolo territoriale di legge molto preciso: 80% per le regioni del Mezzogiorno e 20% per il Centro-Nord. Va inoltre sottolineato che l’idea di questo nuovo Fondo paradossalmente arriva dopo la decisione dei mesi scorsi di non dare seguito al Fondo anti delocalizzazione da 200 milioni varato dal precedente governo. Queste risorse infatti, inizialmente affidate a Invitala Ventures Sgr, dovrebbero confluire nel nuovo Fondo nazionale innovazione per lo sviluppo del venture capital che sarà gestito dalla Cassa depositi e prestiti.

Vantaggi e obblighi per le aziende

Oltre al registro, nascerà un logo dei marchi storici che le imprese iscritte potranno utilizzare per le finalità commerciali e promozionali. Le stesse imprese, se chiederanno finanziamenti bancari finalizzati a progetti di valorizzazione economica dei marchi, potranno accedere alla garanzia del Fondo centrale Pmi. I vantaggi compensano gli oneri? La stessa norma stabilisce che le imprese iscritte, nel caso intendano chiudere l’attività o delocalizzarla, debbano notificare al Mise le informazioni sul progetto. In particolare su quattro punti: i motivi economici e finanziari; le azioni tese a ridurre gli impatti occupazionali; le azioni che si intraprenderanno per cercare nuovi acquirenti (qui il riferimento più diretto alla legge francese Florange); le opportunità per i dipendenti di presentare un’offerta pubblica di acquisto o di recuperare gli asset.

Ogni tre mesi l’impresa informa il Mise sulle proposte di acquisto ricevute. Se nessuna proposta viene presentata o accolta, deve essere presentata al ministero una relazione. Violare questi obblighi comporta una sanzione amministrativa fino al 3% del fatturato medio annuo conseguito nell’ultimo triennio.

Il passo successivo è capire che cosa succede senza soluzione. In questo caso, stralciata l’ipotesi iniziale del commissariamento da parte del ministero, si avvia una sorta di tavolo tra l’impresa e il Mise, «una collaborazione per l’individuazione di attività sostitutive per la reindustrializzazione e l’utilizzo del marchio stesso» (il tutto con modalità e criteri demandati a un successivo decreto interministeriale). Insomma, in un certo senso l’intera procedura porta a un punto molto simile a un normale tavolo di crisi tra le centinaia aperte al ministero.

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