Maria le «cantava» a suon di lettere
Trent’anni di missive della Callas raccolte e conservate dai destinatari. La diva scrive al marito, a Onassis e alla maestra di canto deridendo le colleghe che gorgheggiano «colla bocca larga come un fornello
di Carla Moreni
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«Sono nella musica che canto», scriveva. Come a dire: io abito lì, non cercatemi altrove. Non troverete nulla. Ed è vero, per lei come per tutti gli altri: i grandi specchiano loro stessi nell’arte, in maniera totale. Fuori non esistono. O forse no. Perché riemergendo dalle oltre cinquecento pagine dell’ultimo libro pubblicato sulla Callas (Io, Maria. Lettere e memorie inedite, a cura di Tom Volf) il suono della voce di lei diventa esperienza tangibile. Ed è un suono diverso ovviamente da quello del canto, che è icona, universalmente conosciuta. Questo è un suono che parla, attraverso la scrittura - privata, veloce, sciolta - dove lei si consegna. Diva dell’opera, assoluta, insuperata, ma non solo.
C’è la Callas in questo migliaio di lettere, raccolte e conservate dai destinatari a formare un carteggio, dal 1946 al 1977, che finisce a pochi giorni dalla morte, a Parigi, e inizia indietro, quando la ragazza di radici greche, nata per caso a New York, tenta in solitaria l’avventura del ritorno in Europa, via mare. Ha ventidue anni da poco compiuti, nella prima missiva. Ed è stupendo (beati noi) che sia già in italiano, come poi la maggior parte delle seguenti. In particolare il blocco delle prime, le primaverili.
Per la Callas l’italiano era la terza lingua, dopo il greco e l’americano. La sua unica insegnante di canto, Elvira de Hidalgo (lei spagnola, al Conservatorio di Atene) gliela aveva subito imposta, come chiave per il teatro in musica. L’allieva le scrive senza interruzioni - passando da un «Cara, cara signora» al più intimo «Cara Elvira» - come a una maestra e a una madre elettiva. Raccontandole tutto, fatiche del lavoro e gioie o tempeste degli affetti. Spietata, quando commenta le colleghe tedesche (lei che debutta a Venezia come Isotta nel Tristano) «colla bocca larga come un fornello e quando arrivano le accute non hanno più d’aprire perché la bocca è già tanto aperta nelle mezze e note gravi che è impossibile più aprire». Disarmata, quando da ultimo confessa il palcoscenico diventato un tormento: «Spero di vincere il mio panico ed essere in forma».
L’italiano si ammorbidisce nel veronese quando Maria incontra Meneghini, il cavaliere dei laterizi con passione per il melodramma. Ventotto anni più di lei, cena fatale subito dopo una prova in Arena, dove era approdata (senza un soldo) per cantare nella Gioconda di Ponchielli, lei primadonna, nell’agosto del 1947. Giovanni Battista evolve in Battista, poi in Titta: al matrimonio lampo sono solo loro due, coi testimoni, il 21 aprile 1949. Il giorno dopo lei parte per la prima tournée in Sudamerica. A Titta vanno le lettere più ampie, le più colorate, narrative, spiritose. Vi sboccia la donna, orgogliosa musicista, divertita (o anche ferocemente infuriata) mentre è in viaggio per i teatri d’Italia, da Udine a Palermo, tra peripezie di modeste stanze d’albergo - che gioia quando hanno il bagno privato, con vasca - dove il telefono sta al banco, all’ingresso. Impossibile parlarsi privatamente. Dunque obbligatorio scriversi. Lei scrive tanto. Spesso a matita, perché le penne sono scariche. E sfruttando la carta a più riprese, tra giorno e notte.
L’epistolario con Titta rappresenta un mondo a sé, lungo un decennio, fino all’incontro nell’estate del 1959 con Onassis (Aristo, a lui solo una lettera, sopravvissuta nel libro) e il successivo divorzio, faticosissimo. Sono la fotografia gustosa di un dopoguerra dove l’opera resiste imprescindibile, nonostante tutto. Al Massimo («’sta Palermo») le cronache della viaggiatrice riportano: «Il modo che lavorino qui è un disastro!». Maria deve cantare Brunilde, nella Valchiria di Wagner, ma è totalmente sguarnita: «Elmo non avevo, lo scudo non era pronto né la lancia. L’orchestra faceva pernacchie - il maestro che parlava molto e non faceva niente». Distrutto, il malcapitato (Molinari Pradelli). Perché comunque per la Callas il più grande sul podio sarebbe rimasto uno, il primo: Tullio Serafin. Quello che le aveva insegnato le parti al pianoforte, che l’aveva portata a debuttare a Venezia, Roma, Firenze. Che le faceva lezioni severe, di ore, a casa (una volta cerca di toccarle una gamba e lei lo scrive a Titta, «per fortuna non c’era la moglie»). Nell’arco della trionfale carriera avrebbe poi lavorato e inciso dischi con tutti i giganti: Bernstein, Karajan, De Sabata, Giulini, Votto (Toscanini lo sfiora, nel previsto Macbeth a Busseto, 1951, ma all’ultimo il maestro è costretto a cancellare), eppure il punto di riferimento rimane Serafin. Quando lei muore, sul pianoforte stanno solo due fotografie, in cornice: una è del Maestro, con dedica. L’altra del padrino, il greco Leo, Leonidas Lantzounis.
Unico rappresentante di una famiglia assente. Nell’epistolario si incontrano i destinatari più altisonanti, da Grace Kelly a Jacqueline Kennedy, da Bernstein a Pasolini, da Elsa Maxwell a Visconti e Zeffirelli; e quando le certezze dell’amore finiscono molte paginette vanno a coppie di amici gay, che le restano fedeli sostenitori (anche quando alla Scala vengono lanciati rapanelli o i manager intentano cause), oppure alla domestica Bruna, con indicazioni per il profumo Hermès Calèche, «piccolo» e la vitamina C. Ma resta una grande assente nei colloqui della Callas, ed è la famiglia. Padre, madre, sorella non entrano mai nel carteggio, se non di riflesso, citati per le continue richieste di denaro. Lei elargisce. Rabbiosa, amara. E mentre il canto della Diva riempie i teatri del mondo, le lettere scorrono in controcanto. In una scrittura sempre più asciutta, amara, spezzata. Invernale, da primaverile che era. Senza più veri interlocutori cui raccontarsi.
Io, Maria. Lettere e memorie inedite
Maria Callas
a cura di Tom Volf, Rizzoli, Milano, pagg. 555, € 21
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