A Tavola con

Mariella Enoc, la Cardinalessa voluta da Bergoglio per ridare slancio al Bambin Gesù

La presidente dell'Ospedale Pediatrico vaticano è una delle manager della Sanità più esperte e stimate e ripercorre la carriera tra sfide, memorie e prospettive

di Paolo Bricco

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6' di lettura

«I bambini mi chiamano nonna. E mi fa piacere. Ma io non sono una trastullatrice. Con determinazione e con razionalità, devo compiere tutti i giorni le scelte giuste perché possano essere curati al meglio e perché anche le loro famiglie vengano seguite, anzi accudite, con competenza e con amore». Mariella Enoc, dirigente della sanità e molto altro, sorride. La presidente dell’Ospedale Pediatrico Bambino Gesù è granitica ma non cupa. Possiede la compatta rotondità che hanno i novaresi, gente di confine a metà fra la gerarchia verticale dei piemontesi e il pragmatismo divertito per la vita dei lombardi.

Usa la chiave dell’ironia personale e della compostezza manageriale per descrivere il metodo con cui ha trasformato questa realtà – dopo il periodo buio degli scandali, successivo alla scoperta nel 2015 dell’utilizzo improprio dei fondi dell’ospedale per ristrutturare l’attico del già segretario di Stato Tarcisio Bertone – in una casa di vetro trasparente e in uno dei punti più avanzati nella cura e nella ricerca pediatriche internazionali, oltre che in una delle (poche) eccellenze gestionali di diretta proprietà e di diretto controllo del Vaticano, che negli ultimi anni ha dovuto affrontare molti problemi con i suoi asset sanitari.

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Ci troviamo a Casa Bleve. I Bleve – la madre Tina e il padre Anacleto – sono una famiglia pugliese arrivata a Roma dal Salento nel 1970: prima con una enoteca al Ghetto e, poi, da una quindicina d’anni, qui a Campo Marzio, a pochi metri da Piazza Sant’Eustachio.

Lontano dai salotti

Il ristorante ha una atmosfera borghese, insieme elegante e sobria. In sottofondo viene diffusa una raccolta del pianista Keith Jarrett. Con affettuoso rispetto, la Enoc viene chiamata “Lella” dalla signora Tina, che adesso gestisce il ristorante insieme al figlio Alessandro: «A Roma – dice - è il posto dove vengo più spesso a mangiare. In questa città non vado mai da nessuna parte. Prima di questa esperienza, sono sempre venuta malvolentieri a Roma. Ora vivo in un residence a Borgo Pio. Oltre a lavorare, partecipo soltanto alle occasioni istituzionali e professionali collegate al Bambino Gesù. Non conosco nessuno dei salotti e nessuno nei salotti conosce me».

In tavola vengono portati il menù e la carta dei vini. Il dialogo con la Enoc rispecchia fedelmente la doppia, complementare, dimensione – insieme personale e professionale – di lei e della sua attività nell’ospedale, con cui ha una profonda identificazione. Una identificazione che ha spinto papa Francesco a confermarla alla presidenza fino al 2023: «Il Santo Padre ama molto questo ospedale. Chi, forse, fatica ad amarlo altrettanto sono il Vaticano e la sua curia. Ma probabilmente mi sbaglio». Mariella, su consiglio della signora Tina, sceglie un Pinot nero della cantina San Michele Appiano: «Non bevo mai vini bianchi. Non mi piacciono. Al massimo prendo un bicchiere di rosso a pranzo».

L’attività dell’ospedale

Nelle cinque sedi dell’ospedale, si trovano seicento e sette posti letto (quaranta di terapia intensiva e ventidue di terapia intensiva neonatale). Ogni anno, al netto della pandemia, si contano novantamila accessi nei due pronto soccorsi del Gianicolo e di Palidoro, trentamila ricoveri ed altrettanti interventi chirurgici, quarantamila day hospital e due milioni di prestazioni ambulatoriali. Vengono eseguiti oltre trecento fra trapianti d’organo, di cellule e di tessuti, compreso l’impianto di cuori artificiali. Ogni anno l’attività di ricerca condotta dal Bambino Gesù produce circa novecento pubblicazioni scientifiche, con settecento progetti e studi clinici attivi condotti su migliaia di pazienti, oltre trentamila analisi genetiche eseguite, nuovi geni-malattia identificati e quasi quindicimila bambini inseriti nella rete delle malattie rare. Tutto questo viene condotto con razionalità manageriale e con un afflato di umanità appunto molto apprezzati da Bergoglio, che chiama con stima la Enoc “la nostra leonessa” e, con un motto di spirito, “la nostra cardinalessa”.

Come antipasto, lei prende un piatto di fave e cicoria. Io, invece, scelgo degli involtini di peperoni con crema di tonno, capperi e alici. L’attuale risanamento del Bambino Gesù nasce anche dai comportamenti virtuosi assunti dalle persone e dalle istituzioni coinvolte: «Facevo parte del consiglio di amministrazione dell’ospedale dal 2014 – ricorda la Enoc – e quando, l’anno successivo, il segretario di Stato della Santa Sede Pietro Parolin mi chiese di diventarne presidente, accettai non senza esitazioni. Subito rinnovai il direttivo della fondazione che si occupa del fund raising. Chiesi a tutti i suoi membri se volessero continuare a impegnarsi per la causa dell’ospedale. Non era una situazione facile. Nessuno si tirò indietro. Lo stesso comportamento, tra i grandi donatori, ebbe Intesa Sanpaolo. Parlai con un dirigente di prima linea della banca, Stefano Barrese, dicendogli che avrei capito se avessero rinunciato a dare corso ai finanziamenti di alcuni progetti strategici. Mi chiamò l’amministratore delegato, Carlo Messina, per comunicarmi che mantenevano le loro posizioni e che avevano fiducia nel nuovo corso dell’ospedale».

In tavola, intanto, viene servita la portata principale del nostro pranzo: per lei una tartare di fassona piemontese, per me una amatriciana buonissima, fatta con il condimento della signora Tina e con la pasta di Verrigni, un artigiano di Roseto degli Abruzzi.

Gli studi di medicina

La scelta da parte del Vaticano della Enoc – in una Italia che spesso è caratterizzata dal mancato incontro fra posizioni di vertice e competenze professionali – nasce specificatamente dal suo profilo. Il padre Giovanni e la madre Evelina erano commercianti all’ingrosso di prodotti farmaceutici che, da Novara, operavano su tutto il mercato piemontese: «Dopo la maturità classica nella mia città, mi sono iscritta a medicina all’università di Modena, ma da subito ho capito che non volevo fare il medico. Il mio interesse era per la gestione della sanità. Non c’era, però, una scuola che la insegnasse. Non mi sono nemmeno iscritta all’ordine dei medici. Ho subito iniziato a lavorare nel campo che desideravo. La mia è stata una vera vocazione per quello che oggi chiamano il management sanitario».

Nel suo caso, la dimensione professionale e l’esperienza della fede si sono fuse e si sono alimentate l’una con l’altra. «I miei genitori erano, come tanti italiani, cattolici non praticanti. Quando, a quattordici anni, dissi che avrei voluto frequentare l’oratorio, mi guardarono come se fossi matta. Per loro avrei dovuto crescere come una borghesotta, impegnata soprattutto a giocare a tennis. Ho sviluppato una fede adulta, senza devozioni. Per me è stato molto importante l’incontro non con la povertà, ma con i poveri. Perché i poveri hanno un nome e un cognome. Nel corso degli anni, ho stretto un legame profondo con il vescovo di Novara, Aldo Del Monte. Quando si ammalò, io e la mia famiglia lo ospitammo per quattordici anni nella nostra casa di Massino Visconti, sul Lago Maggiore. Da monsignor Del Monte venivano spesso il cardinale Carlo Maria Martini, che era uno dei suoi più intimi amici, e il presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro, novarese. La nostra sala da pranzo, per il numero considerevole di amici che la frequentavano, era chiamata “il refettorio”. Anche per questo, la casa di Massino Visconti è la mia casa del cuore».

Profilo di risanatrice

Nella costruzione della sua identità professionale e personale, l’arrivo al Bambino Gesù è seguito all’incarico di procuratore speciale dell’ospedale Cottolengo di Torino e dell’Ospedale Valduce di Como. La dimensione intima da cattolica adulta (raccontata nel libro “Il dono e il discernimento”, scritto insieme a Francesco Occhetta, gesuita e notista politico della “Civiltà Cattolica”, e pubblicato da Rizzoli) e la formazione progressiva di un profilo raro di risanatrice gestionale e di riposizionatrice strategica di antichi ospedali hanno fatto il paio con il suo graduale ingresso nelle dimensioni sociali e culturali più influenti del Paese. Per esempio, Enoc è stata a lungo vicepresidente della Fondazione Cariplo, la creatura di Giuseppe Guzzetti: «Si è trattato di una esperienza per me fondamentale, che ha avuto un inizio e una fine. Abbiamo ricostruito tutti i meccanismi di assegnazione dei fondi attraverso i bandi. Abbiamo creato la rete delle fondazioni di comunità. Credo di avere dato un contributo di puro servizio e non di potere: tutti sapevano che, se qualcuno voleva essere sicuro di non ricevere dei soldi, bastava che li chiedesse alla vicepresidente». Ma Enoc è anche vicepresidente del comitato direttivo della Fondazione Cini di Venezia, che da sempre rappresenta uno dei principali centri culturali italiani e uno dei luoghi di compensazione dell’influenza, del potere e della responsabilità la cui originaria matrice laica si è ibridata con la tradizione cattolica.

Siamo al dolce. Lei prende del gelato di latte di bufala al pepe rosa del Madagascar e io, invece, scelgo una crema di marroni con salsa di cachi. «Sono innamoratissima di questo ospedale. Per me tutto questo è un grande dono. Una sintesi bellissima di quello che siamo l’ha data papa Bergoglio, quando ci ha detto: “Voi non siete un ospedale cattolico, voi siete un ospedale umano”. Questa comunità mi commuove, mi tocca e fa di me quello che sono diventata», conclude aprendo il cuore delle emozioni Mariella Enoc, manager sanitaria, donna di spiritualità fattiva e tanto altro ancora.

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