Meglio dire “non lo so”
Si tratterà di un “mondo” nuovo i cui contorni, però, potranno pian piano emergere solo “dopo”: dopo aver ripercorso dieci, cento, mille volte i giorni drammatici – che abbiamo vissuto e stiamo ancora vivendo – alla ricerca di parole che, se siamo onesti con noi stessi, ora davvero non abbiamo
di Michela Marzano
3' di lettura
Ho sempre pensato – e continuo a pensare – che l'unica possibilità che abbiamo per proiettarci nel futuro – e capire quindi verso dove ci dirigiamo – è avere bene in testa chi siamo e da dove veniamo. Senza certezze sul presente, è praticamente impossibile averne sul futuro. E allora come facciamo anche solo a immaginare il mondo che verrà?
Ma forse dovrei essere più modesta e, senza utilizzare un fin troppo enfatico “noi”, dovrei riformulare la domanda in prima persona: come faccio io a ipotizzare il mondo di domani, se non so più chi sono e che cosa sto vivendo ora? Perché il dramma, almeno per me, è proprio questo: mi si sono sbriciolate tutte le certezze che avevo prima, e sono gli stessi contorni del mio io che hanno iniziato a vacillare. E nonostante mi sforzi disperatamente di cercare le parole adatte per descrivere questi giorni e queste settimane, mi rendo conto di non esserne in grado. Non so cosa voglia dire elaborare il lutto di una persona cara cui non si è potuto dire «addio».
Non so cosa significhi non avere un luogo dove piangere i propri morti. Non so nemmeno quali conseguenze possa avere il fatto di alzarsi ogni giorno e non avere progetti, perché quali progetti si possono mai avere quando il tempo si paralizza, e ogni giorno è identico al precedente, organizzato intorno a una serie di nuovi rituali e nuove abitudini che non abbiamo mai avuto e che, in fondo, non vediamo l'ora di abbandonare? So che sono tanti a fare ipotesi, a costruire scenari, a fabbricare sogni. So, soprattutto, che ogni volta che ascolto qualcuno spiegare come stiano emergendo nuove solidarietà, oppure come la solitudine ci stia costringendo a riscoprire l'essenziale, oppure anche come il mondo che verrà sarà più autentico, più ecologico, più connesso, provo un senso di tristezza e di smarrimento.
Davvero?, mi chiedo incredula. E questi che cosa ne sanno? Hanno una sfera di cristallo oppure cercano solo di riempire il vuoto di senso che loro stessi stanno forse attraversando con banalità e luoghi comuni? Non ho la minima idea di come sarà il mondo che verrà. Ma so che sono stufa di tuttologi e falsi profeti. So che sono stufa dell'assenza di autenticità che caratterizza la più parte dei discorsi che si ascoltano in tv o alla radio (oppure anche sui social, con tutte queste dirette su Instagram o su Facebook che si moltiplicano, e a cui persino io, talvolta, partecipo: ma di che parlo? Cosa dico?). So, soprattutto, che l'unica cosa che vorrei sentire è il dubbio di chi, onesto con se stesso, sia capace di dire semplicemente: «Non lo so».
Forse tutto tornerà come prima. Oppure bisognerà fare il lutto del mondo che abbiamo conosciuto fino a ora. E quindi passare per tutte le fasi di questo orribile lutto: la negazione, la rabbia, il dolore cieco, la resilienza. E solo poi trovare la forza per ricominciare. Sapendo che questo lungo processo di elaborazione della perdita comporta sempre un cambiamento radicale, e che ogni cambiamento radicale – checché ne dicano tanti intellettuali e tuttologi – è l'anticamera di ciò che non si conosce.
Quando iniziai il mio percorso di psicoanalisi, ero convinta che, alla fine, tutto si sarebbe aggiustato. Pensavo che, pian piano, mi sarei “riparata”. Credevo che la guarigione sarebbe consistita nel tornare a essere esattamente la stessa persona di prima, dolore a parte. Quando iniziai il mio percorso di analisi, non sapevo ancora che la guarigione sarebbe intervenuta solamente quando, accettando di ripercorrere dieci, cento, mille volte le stesse cose alla ricerca delle parole giuste per nominare l'innominabile, avrei capito che nulla sarebbe mai più stato come prima, e che sarei stata costretta a rimettere tutto in discussione e cambiare strada.
Ecco, quando penso al mondo che verrà, penso che si tratterà di un mondo che non ha più niente a che vedere col mondo che conosciamo; un mondo nuovo i cui contorni, però, potranno pian piano emergere solo “dopo”: dopo aver ripercorso dieci, cento, mille volte i giorni drammatici – che abbiamo vissuto e stiamo ancora vivendo – alla ricerca di parole che, se siamo onesti con noi stessi, ora davvero non abbiamo; dopo aver rimesso tutto in discussione e aver accettato la sfida della rinuncia a voler sempre conoscere e controllare tutto.
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