Meloni: «La sfida della parità? Il ceo donna in una partecipata»
La presidente del Consiglio annuncia il suo obiettivo e spiega che «il valore è la qualità, non la quantità dei ruoli». Nel 2022 solo 17 amministratrici delegate nelle società quotate
di Simona Rossitto
3' di lettura
Una donna nella carica di ceo di una società partecipata statale: se lo pone come obiettivo Giorgia Meloni, prima presidente del Consiglio, con l’avvicinarsi della stagione delle nomine. «La sfida - ha detto alla presentazione del nuovo allestimento della Sala delle Donne alla Camera dei deputati- non è su quante donne siedono in un consiglio di amministrazione, la sfida è su quando avremo il primo amministratore delegato donna di una società partecipata statale. Ve lo annuncio: è uno degli obiettivi che mi do». E ancora: «Credo che il vero valore di una competizione ad alto livello – ha argomentato - stia nella qualità prima che nella quantità dei ruoli. Mi piacerebbe, e lo dico alla vigilia di una scelta importante che il Governo deve fare, immaginare che anche nelle grandi partecipate statali possa esserci un amministratore delegato donna perché non c'è mai stato. Credo che questa sia la grande sfida della parità».
Le parole della presidente del Consiglio arrivano alla vigilia di un banco di prova per la presenza delle donne nei ruoli apicali delle aziende. In primavera, già dalla fine di marzo, si scioglierà, infatti, il nodo delle nomine nelle big controllate dal Tesoro, da Eni a Enel, da Poste Italiane a Terna. Ad oggi nelle grandi, e strategiche, partecipate del Mef c’è solo una rappresentanza femminile nel ruolo di presidente: Maria Bianca Farina alla presidenza delle Poste; Lucia Calvosa, presidente di Eni; Francesca Isgrò, presidente di Enav; Patrizia Greco, presidente di Mps; Valentina Bosetti, presidente di Terna. L’attenzione è alta, anche considerato che il boccone è ghiotto: scadono 17 società partecipate direttamente dal Mef e una cinquantina di partecipate indirettamente. Il test non riguarda solo le partecipate del Tesoro, ma ci sono anche varie società private per le quali si aspetta una nuova tornata di nomine: da Anima a Banco Bpm in primavera, a Mediobanca, il cui rinnovo è atteso per ottobre. In tutto si tratta di 62 board da rinnovare, con 584 consiglieri: per legge, almeno 230 membri del board, ovvero il 40%, dovrebbero essere donne.
I numeri più recenti fotografano un “soffitto di cristallo” ancora difficile da sfondare. Nel 2022 sono solo 17 le società quotate guidate da una donna secondo i numeri della Consob aggiornati a fine dicembre scorso, anticipati al Sole 24 Ore. Il dato, rappresentativo del 2% della capitalizzazione totale del mercato, risulta in linea con quello diffuso per il 2021.
Va un po’ meglio, rispetto al trend delle quotate, se si guarda alla tendenza registrata dalle aziende del mid-market. Secondo il rapporto Women in Business, parte del Grant Thornton International Business Report che fornisce informazioni su oltre 10mila aziende in 30 economie di tutto il mondo, le posizioni di ceo occupate dalle donne italiane nel 2022, seppur di poco, sono aumentate rispetto all’anno precedente: si arriva al 20% nei vertici aziendali a fronte del 18% registrato nel 2021.
In generale, tuttavia, la situazione italiana delle donne ai vertici delle aziende non brilla neanche nel confronto europeo. Stando agli ultimi dati di Ewob, l’associazione European Women on Boards, di cui l’italiana Valore D fa parte, considerate le più grandi aziende del Vecchio Continente, la quota di donne ceo in Italia è scesa nel 2021 al 3 per cento. L’Italia, dunque, si posiziona in fondo alla classifica, con Germania (3%) e Svizzera (2%), ma dietro a Spagna (4%) e Portogallo (6%). Brillano Norvegia, con il 26%, e la Repubblica Ceca con il 18 per cento. D’altro canto, il nostro Paese vanta la più alta percentuale di donne nei comitati dei consigli di amministrazione e consigli di sorveglianza (47%).
Volendo, quindi, guardare il bicchiere mezzo pieno, se le donne faticano a raggiungere i ruoli apicali, la presenza nei board delle società ha compiuto notevoli passi avanti. Tutto ciò grazie all’effetto della legge Golfo-Mosca del 2011, e all’impianto legislativo favorevole, che impone che almeno il 40% nei board delle quotate e delle controllate pubbliche sia riservato al genere meno rappresentato. Percentuale che è stata raggiunta e anche leggermente superata.Tuttavia, le preoccupazioni sorgono laddove finisce l’effetto dell'obbligo legislativo. Ci sono timori per le società non quotate (e non è raro il caso di realtà che, una volta lasciata la Borsa, tornano indietro rispetto alle percentuali di quote rosa) e circa il raggiungimento dell’obiettivo previsto dalla direttiva sulla parità di genere che vuole, entro il 2026, il 33% dei ruoli dirigenziali nelle società quotate ricoperti da donne. Una donna a capo di una partecipata statale sarebbe già un segnale di un cambio di mentalità.
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