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Quanto cresce il pil se il governo aumenta le spese? E se taglia le tasse? Le spese pubbliche hanno molti obiettivi: la crescita, la coesione sociale, la fornitura di servizi, e il desiderio dei partiti di maggioranza di aumentare i voti (anche se il gioco non sempre riesce). Un curioso luogo comune, non confortato dai risultati della scienza economica, fa dell’aumento delle spese pubbliche, e del deficit che inevitabilmente ne consegue in Italia, il “motore della crescita”.
Lavoro, capitale, tecnologie e competenze dei lavoratori (ma anche le infrastrutture che incidano davvero sulla produttività) sono invece i veri fattori dello sviluppo economico, mentre le spese pubbliche sono uno strumento - a volte importante, come durante le recessioni - per sostenere la domanda, riportare il pil alla sua velocità di crociera. La politica fiscale è solo un sostegno, quindi. Utile nei momenti di difficoltà.
Il gioco dei moltiplicatori
È importante allora rispondere, uscendo da luoghi comuni e visioni ideologiche (che si affollano, sulla politica fiscale), alla questione: quanto aumenta il pil se…? La risposta è complicata ma, dalla Grande recessione e dalle difficoltà del salvataggio della Grecia, le ricerche sono diventate sempre più numerose. I risultati sono interessanti: molti fattori incidono sui cosiddetti “moltiplicatori”, che misurano l’effetto sulla crescita della politica fiscale: una recessione li aumenta (fino al 60%, secondo le indicazioni del Fondo monetario internazionale), mentre una fase di espansione li smorza (anche del 40%). Una politica monetaria espansiva li sostiene, una restrittiva li frena. Da un punto di vista strutturale, i moltiplicatori sono più alti – secondo le conclusioni dell’Fmi – se l'economia è relativamente chiusa; se il mercato del lavoro è rigido; se gli stabilizzatori automatici sono piccoli; se la valuta è fissa o quasi fissa; se il debito è basso; e se spese ed entrate sono gestite efficacemente. L’Italia è quindi nella fascia media, gli interventi hanno un effetto sul pil compreso tra il 50 e il 70% dell’ammontare speso (o tagliato) sul primo anno, e tra il 70% e il 90% il secondo. Poco.
Ue: forte l’effetto degli investimenti, basso quello dei tagli fiscali
L’effetto – i moltiplicatori – variano anche in relazione alla misura concretamente usata. Nel 2010, la Commissione Ue valutò i moltiplicatori per diversi tipi di intervento, in questo caso considerati come transitori. Poche le sorprese: grande l’effetto degli investimenti (pubblici o sussidiati), ma anche quello dell’aumento dei salari pubblici. Molto basso invece quello dei trasferimenti – come pensioni, sussidi di disoccupazione, reddito di cittadinanza o anche un taglio delle imposte sul reddito. I tagli (o gli aumenti) delle tasse hanno effetti piuttosto limitati, a meno che l’economia non si trovi di fronte a limiti all’accesso al credito e una politica monetaria espansiva.
Italia: gli investimenti spingono la crescita, il debito tiene
Per l’Italia, i calcoli sono stati realizzati dalla Banca d’Italia, nell’elaborazione del suo modello macroeconomico (rivisto nel 2017). In questo caso la misura fiscale è sostenuta - quindi ripetuta e rifinanziata nel tempo - invece di essere transitoria, e l’effetto è valutato su almeno cinque anni. Un aumento degli investimenti pubblici (pari a un 1% del pil) ha un effetto che cresce nel tempo, anche se si esaurisce nell’arco di 10 anni. Tra il terzo e il quarto anno l’incremento del pil – rispetto allo scenario di base (baseline) – raggiunge un massimo a 1,2 punti percentuali.
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Gli investimenti privati, invece di essere “spiazzati”, sono accelerati e dopo cinque anni sono 3,7 punti più alti rispetto alla baseline. Peggiora però il commercio con l’estero (aumentano le importazioni) e il lavoro reagisce debolmente: +0,3% il primo anno, +0,9%, in modo cumulato, dopo cinque anni. Aumentano gradualmente, però, anche i prezzi, che dopo cinque anni sono l’1,4% più elevati rispetto allo scenario di base. Questo significa che il pil nominale, rilevante per il rapporto debito/pil, può salire a un ritmo piuttosto sostenuto, a parte forse il primo anno.
Taglio del cuneo: più crescita e occupazione, ma il debito rischia
Anche più efficace un taglio dei contributi sociali pagati dalle imprese. Aumenta la competitività e l’export (+3,9% dopo cinque anni) e calano i prezzi (-1,9%). Di conseguenza salgono il reddito disponibile reale e le spese delle famiglie (+1,9%). L’effetto sugli investimenti è limitato (aumenta il costo del capitale rispetto a quello del lavoro), ma il calo dei salari reali (pagati dalle imprese, non percepiti dalle famiglie) fa salire la domanda di lavoro. «Dopo cinque anni, il pil e l’occupazione sono più alti rispettivamente di circa 1,7 e 1,2 punti percentuali», spiega la Banca d’Italia. L’impatto sull’inflazione fa sì che il pil nominale tenda a ridursi e questo rischia, anche in assenza di maggiori spese pubbliche, di far aumentare il rapporto debito/pil.
Sussidi e “flat tax”: effetti limitati sulla crescita
I trasferimenti alle famiglie – compresi i tagli alle imposte sul reddito – hanno invece un effetto limitato. Aumentano i consumi (+0,2 punti dopo un anno, +1,3 punti dopo cinque anni,) e il pil (+0,1 dopo un anno, 0,7 dopo cinque anni, 0,8 dopo nove anni, quando iniziano a calare). In cinque anni l’occupazione aumenta di 0,3 punti percentuali, gli investimenti di 1,3 punti. L’impatto sul pil nominale è molto limitato ma la misura - se finanziata in deficit - è destinata comunque ad aumentare il rapporto debito/pil.
Taglio (e aumento) dell’Iva: effetti forti su prezzi e consumi
Un taglio alle tasse indirette, come l’Iva, aumenta i consumi (1,4 punti dopo cinque anni) e il pil (+0,7) ma fa calare i prezzi (-1,68 punti dopo cinque anni). Gli investimenti restano fermi a causa dell’aumento dei tassi reali che compensa l’effetto della maggior domanda. Il contrario avviene – quindi con i segni sono invertiti, il più diventa meno e viceversa – nel caso in cui l’Iva dovesse aumentare. Anche nel caso del taglio delle tasse indirette, il pil nominale tenderebbe a contrarsi e il rapporto deficit/pil ad aumentare.
Consumi compressi nel modello Bce
Un’accelerazione adeguata, poi un’improvvisa frenata. È questo l’effetto sulla crescita di un aumento delle spese pubbliche nella componente italiana del Multi-country model della Bce. Un incremento pari a un 1% del pil dei consumi pubblici determina nell’immediato una crescita del pil dell’1% rispetto allo scenario di base, presto seguito però da una compressione dell’attività economica (fino allo 0,5% della baseline). Nel medio periodo si torna al livello di partenza. Aumentano infatti le importazioni, mentre l’incremento dei prezzi - piuttosto forte in tutti i modelli - penalizza le esportazioni e soprattutto i consumi che, dopo una prima fase di crescita, calano fino al 2% rispetto al trend e, soprattutto, restano al di sotto della tendenza di fondo. Questo andamento potrebbe spiegare perché l’ostinazione italiana sulle spese pubbliche ha generato quasi solo un aumento del debito.
Il peso dei rendimenti
Nel caso italiano un altro fattore rischia di incidere sulla crescita, ed è la reazione dei mercati alla politica fiscale. In base ai calcoli effettuati dal Fondo monetario internazionale, una manovra in grado di aumentare il pil dello 0,8% (uno per cento nel medio periodo) può trasformarsi - in presenza di un aumento di solo 0,50 punti percentuali dei rendimenti - in uno scenario di rapida contrazione del pil con un massimo di due punti percentuali entro tre anni. Con una complicazione: se la crescita reagisce rapidamente all’andamento dei rendimenti, il debito reagisce rapidamente (salendo) agli shock sulla crescita. Il rischio è dunque quello che si crei una spirale negativa. La politica fiscale si conferma quindi uno strumento delicatissimo. Soprattutto in una situazione di alto debito.
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