Mercato M&A in frenata, consulenza più sofisticata
Meno super deal. Pesano i tassi alti e l’incertezza, ma i clienti sono disposti a spendere di più per servizi legali di qualità
di Carlo Festa
4' di lettura
Un mercato delle fusioni e acquisizioni in discesa e più complesso e problematico a causa della situazione economica e della dinamica dei tassi d’interesse. È questo il contesto nel quale si stanno muovendo i grandi studi legali italiani. Il risultato? I grandi clienti cercano servizi sempre più sofisticati e strutturati su misura.
«Si cercano - spiega Stefano Sciolla, managing partner dello studio Latham & Watkins - studi che garantiscano un livello di efficienza e competenza e qualità superiore. In questo senso, stiamo assistendo ad un atteggiamento quasi in controtendenza rispetto a quello che ci si aspetterebbe in questo momento macroeconomico. Gli operatori sono disposti a spendere di più per servizi legali, a patto che si garantisca un livello eccellente di assistenza».
Anche nelle fusioni, poi, la trasformazione è all’insegna di due grandi filoni: il digitale e la transizione energetica. «Le operazioni di M&A - gli fa eco Umberto Penco Salvi, partner dell’area corporate di Clifford Chance - continuano a essere lo strumento più veloce per crescere ed accelerare il processo di trasformazione. Ad esempio, ci sono operazioni nella pipeline 2023 finalizzate a rendere più green e più digitali i grandi gruppi societari. Per gli studi legali nascono nuove opportunità».
I riflettori sono sulla frenata del mercato. «C'è maggiore ottimismo - spiega Antonio Segni, partner, dipartimento M&A dello studio legale Gianni & Origoni - per la seconda parte dell’anno, quando gli elementi di incertezza dovrebbero essere mitigati con un confronto dei risultati della prima parte dell’anno e maggiore visibilità sulle condizioni macroeconomiche».
Ma quali sono i player, quindi i clienti, più attivi? «I private equity - indica Eliana Catalano, partner di BonelliErede - soprattutto sul mid-market, sono sempre attivi anche per l’elevata liquidità a loro disposizione. Altrettanto i fondi infrastrutturali. Le condizioni di mercato e, in particolare, l’aumento del costo del denaro, potrebbero favorire compratori industriali, con buone disponibilità finanziarie, che da un lato, sulle operazioni più grandi, vedono meno concorrenza da parte dei fondi e dall’altro lato, facendo leva sulle sinergie interne, potrebbero offrire valutazioni più interessanti».
«Stiamo assistendo - continua Sciolla - ad una discreta attività da parte di tutti i player. Seppure con una flessione per i cosiddetti mega-deal, assistiamo ad una proliferazione di opportunità per le operazioni di taglia medio-grande, tra i 300 milioni e i 700 milioni, meno aste competitive, più situazioni proprietarie e in esclusiva. Molti fondi di private equity hanno iniziato il fund raising e, pertanto, ci attendiamo che l’attività riprenda con ancora più vigore a breve. Notevole permane l’attenzione degli operatori di private equity nel settore delle infrastrutture dove notiamo una notevole attività».
Di sicuro, la volatilità del mercato, il rischio di recessione e l’incremento dei tassi di interesse stanno disincentivando le operazioni di grandi dimensioni, ad alto multiplo e con leva elevata, tipiche dei fondi di private equity. «Ne risentono inevitabilmente - afferma Francesco De Gennaro, partner di Dla Piper - anche la tempistica e la strategia di exit: i periodi di detenzione tendono ad allungarsi e si valutano dismissioni parziali o vie di uscita alternative. A beneficiarne sono le politiche espansive dei clienti corporate dotati di disponibilità finanziarie, che hanno riacquistato competitività grazie all’aumento del costo del denaro e alla capacità di esprimere sinergie industriali e operative. Sul versante del debito, il rallentamento del leverage finance più tradizionale è in parte compensato dall’espansione dei fondi di private debt e alternative lending».
Incide poi la difficoltà sui finanziamenti. «Il costo del denaro e la difficoltà di finanziare tramite high yield bond le operazioni di private equity più grandi - osserva Eliana Catalano - ha inciso sulla tipologia e la dimensione delle operazioni. Negli ultimi anni in Italia è cresciuto molto il mercato del private debt e stiamo cominciando a vedere anche nel nostro Paese l’impiego dei continuation funds».
«Quando la scadenza dei debiti - sostiene Penco Salvi - si avvicina anche le grandi società possono trovarsi in difficoltà a rifinanziarsi a tassi sostenibili, così nascono le operazione di cessione di non-core asset e altre operazioni per creare liquidità». Ma quali sono le clausole più utilizzate in questa fase di incertezza sui mercati? «La clausola di earn-out - dice Antonio Segni- è utilizzata da tempo ma non mi sembra particolarmente adatta e risolutiva in questo momento di incertezza, in quanto presuppone una fiducia dell’imprenditore, o dell’investitore, rispetto alle previsioni di risultati futuri. Vedo molto utilizzate clausole di liquidation preference, che proteggono l’investitore soprattutto dal rischio di minor accrescimento del valore della target rispetto agli obiettivi di rendimento».
«Gli investitori - conclude De Gennaro - chiedono un approccio sempre più creativo. L’evoluzione riguarda le strutture di investimento più che le singole clausole contrattuali. La diversificazione delle strategie sta favorendo la convergenza tra debito ed equity e, in particolare, la sottoscrizione di strumenti finanziari ibridi - anche non partecipativi - convertibili in azioni ordinarie o di classe speciale. La combinazione di investimenti in debito ed equity può peraltro contribuire alla sostenibilità degli oneri finanziari in una fase di continuo rialzo dei tassi».
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