Mi metto in proprio? Uno stress test in pillole prima di prendere decisioni
Dimentichiamo le nostre passioni e inclinazioni e proviamo a valutare il nostro progetto solo sulla base di competenze, esperienze e network
di Lorenzo Cavalieri *
5' di lettura
Nonostante il Covid abbia portato tutti noi a riscoprire il valore della sicurezza e delle garanzie del lavoro dipendente, la prospettiva di mettersi in proprio è sempre più presente nelle nostre vite professionali. Da un lato è lo sviluppo dell’economia a creare le condizioni propizie per il free lancing e l’imprenditorialità, dall’altro è la temperie culturale in cui siamo immersi a spingerci a “mollare tutto e provare a farcela da soli”, ad assumerci rischi per realizzarci davvero, all’insegna del “You only live once”.
Probabilmente non è un caso che il ministero del Lavoro abbia registrato un aumento notevole delle dimissioni volontarie in Italia nel 2021. Un dato che si incrocia con l’incremento di aperture di partita Iva. Si tratta di un fenomeno che anche altre economie sviluppate hanno sperimentato e che negli Usa ha preso il nome di Great Resignation.
Al di là delle statistiche è un dato di fatto che a tutti noi prima o poi viene in mente l’idea di un salto nel mondo del lavoro autonomo. Qualche volta si tratta solo di un pensiero “vacanziero” o da domenica pomeriggio, quando l’idea di tornare a combattere con il capo l’'indomani ci fa deprimere o infuriare. Qualche altra volta invece il pensiero si struttura, e prende la forma di un vero progetto di start up, più o meno innovativo, più o meno solitario.
Come è noto ce la fanno in pochi. I tassi di fallimento di queste nuove iniziative secondo alcune ricerche si attestano attorno al 90%. Per questo prima ancora di abbozzare numeri e business plan è importante porsi alcune domande in modo spietato, una sorta di stress test al progetto prima di lanciarsi definitivamente. In questi anni ho incontrato come coach centinaia di professionisti che volevano mettersi in proprio. Queste sono le domande brutali con cui ho imparato a pungolarli.
1) Vuoi cambiare lavoro o vuoi cambiare vita? Mettersi in proprio non è (solo) un passaggio di status giuridico/contrattuale. Mettersi in proprio è un passaggio che si potrebbe definire esistenziale. Cambiano completamente le regole del gioco: sbagli tu e perdi tu. Fai bene tu e vinci tu. La metafora più utilizzata per descrivere questa transizione è quella dell’assenza di paracadute. Lavorare senza paracadute, completamente esposti alle oscillazioni del mercato, al cambiamento degli orientamenti dei clienti, la cambiamento di normative, agli imprevedibili “cigni neri” (molti di noi conoscono qualcuno che ha rilevato o aperto un esercizio commerciale nel gennaio 2020) richiede fegato, o più semplicemente un modo diverso di concepire il proprio tempo e il proprio impegno, un modo diverso di interagire con i familiari, di programmare il futuro, di concepire il proprio rapporto con i soldi.
Quindi la risposta corretta alla domanda da cui siamo partiti dovrebbe essere “voglio cambiare vita”. Se ci anima solo il desiderio di un lavoro diverso ma la nostra vita ci piace così com’è non siamo sulla strada giusta. E servono a poco anche i tentativi di lanciarsi nell’imprenditorialità conservando però in qualche modo il proprio posto da dipendente. Fino a quando ci sarà il paracadute non sapremo cosa significa davvero essere imprenditori.
2) Vuoi guadagnare di più? Quasi sempre quando ci mettiamo in proprio abbiamo tante motivazioni diverse. Solitamente però c’è una motivazione prevalente. Bisogna individuarla e metterla in discussione. Nella mia esperienza ho potuto verificare che la motivazione più sana per lanciarsi è anche quella meno romantica: “voglio guadagnare (di più) e credo che ci sia un’opportunità di business importante se mi organizzo in questo modo…” In questo senso la domanda che dovremmo porci è “se questa attività a cui stai pensando la svolgesse un’altra persona e tu fossi solo un puro investitore lo finanzieresti?”.
È molto utile ragionare in questo modo perché riusciamo a percepire immediatamente se la molla che ci spinge è legata troppo alla dimensione della gratificazione personale. Spesso infatti, scavando nelle motivazioni di chi lascia il lavoro dipendente per quello autonomo, si scopre che tutto parte da una voglia di riscatto personale o dal desiderio di una vita più serena o più vicina alle proprie passioni. Intenzioni nobilissime e più che legittime, ma che non portano di per sé clienti e fatturato, anzi spesso paradossalmente li allontanano perché sono il segno di una scelta “autocentrata”, quando invece un imprenditore di successo dovrebbe partire sempre dall’'osservazione del comportamento altrui. Il mondo è pieno di venditori appassionati di cose che comprerebbero solo loro.
3) Sei pronto a vendere? Chi si mette in proprio tende naturalmente a sovrastimare la qualità del proprio prodotto. Tendiamo a pensare che i nostri clienti ci troveranno con facilità, apprezzeranno i nostri prodotti/servizi, ci riempiranno di complimenti attivando quel passaparola che riempirà la nostra agenda e il nostro portafoglio ordini. Ovviamente non funziona così. Salvo rarissime eccezioni all’inizio nessuno di accorgerà di noi e quando lo farà dovremo impiegare le nostre migliori energie per vincere diffidenza e indifferenza. Insomma dovremo essere venditori, a prescindere dal settore e dal tipo di organizzazione che abbiamo in mente. Dovremo sudare le sette camicie del venditore che conquista il fatturato scrivendo, alzando la cornetta, stringendo mani, collezionando porte in faccia. Vale per il giovane avvocato che si mette in proprio, per il manager che molla tutto e apre una gelateria, per il pensionato che lancia un e-commerce.
Tendiamo a sopravvalutare la possibilità di delegare questo compito. Anche se immaginiamo una vendita tutta online o una struttura di collaboratori che vende per noi, l’imprenditore vende sempre, in altri modi magari, ad altri interlocutori, ma vende sempre. Soprattutto siamo portati a sottovalutare l’impatto delle incombenze commerciali sulla nostra agenda, sul nostro conto economico (trovare clienti costa) e sulle nostre energie.
4) In che modo farai la differenza? Se desideriamo metterci in proprio dovremmo essere ossessionati dalla ricerca del motivo per cui un cliente dovrebbe scegliere noi o il nostro prodotto invece che qualcun altro o qualcos’altro. Confesso che di fronte a questo tipo di provocazione nelle sessioni di coaching ascolto molto spesso risposte generiche, fondate per lo più su percezioni soggettive. Il successo della nostra iniziativa è legato alla combinazione virtuosa dei nostri asset personali: competenze (quelle che il mercato ci riconosce o ci ha riconosciuto in passato), esperienze, network.
Dimentichiamo per qualche minuto le nostre passioni e le nostre inclinazioni. Facciamo finta che non esistano. Proviamo a guardare il nostro progetto solo sulla base di competenze, esperienze e network. Siamo ancora la persona giusta per il progetto?
Le quattro domande che ho passato in rassegna sono uno stimolo prezioso per chi sta pensando di passare dalle parole ai fatti, mettendo le mani al portafogli per investire su sé stessi. Comunque vada questo esame di coscienza c’è una buona notizia che ricavo sempre più spesso durante i colloqui di lavoro: molti falliscono, ma tra questi moltissimi sinceramente confessano “mi è servito, lo rifarei”.
* Managing director della società di formazione e consulenza Sparring
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