Migranti, occupazione femminile bassa e precaria
Tra le donne arrivate in Italia lavora solo il 42%, con salari inferiori alla media e contratti non adeguati alla loro istruzione
di Valentina Furlanetto
3' di lettura
C’è Maryana Kovalenko, ucraina originaria di Leopoli, che lavora da dieci anni a Treviso come badante; c’è Roya Abdollahi, iraniana, che ora vive e lavora come stilista a Milano; e poi c’è Adriana Pratichi, ex bracciante in Puglia e oggi sindacalista di origine rumena. Hanno storie diverse, ma hanno tutte una cosa in comune: hanno compiuto una lunga strada. Non solo fisica, ma anche emotiva e culturale. Per loro lavorare in Italia è stata una conquista raggiunta superando ostacoli linguistici, burocratici e talvolta anche culturali. Hanno sperimentato sulla loro pelle l’importanza di rendersi indipendenti economicamente per raggiungere anche una libertà di azione e di pensiero. Hanno messo in atto l’insegnamento della staffetta partigiana e femminista Lidia Menapace che raccomandava sempre alle giovani donne «siate indipendenti economicamente. Cambiate pure uomo, l’importante è che non gli chiediate i soldi per le calze, perché non si può essere indipendenti nella testa se si è dipendenti nei piedi». Per essere indipendenti dai piedi ci vuole un lavoro.
Il report del Centro Studi e Ricerche IDOS e l’Istituto di Studi Politici “S. Pio V” dal titolo «Le migrazioni femminili in Italia. Percorsi di affermazione oltre le vulnerabilità» e presentato il 28 febbraio 2023 ha valorizzato anche questo aspetto della storia dell’immigrazione femminile in Italia. Il report parla di donne autonome nei loro percorsi e protagoniste delle loro vite, ma schiacciate su posizioni subalterne che le espongono a meccanismi di discriminazione. Ne sono prova i dati: sebbene tra gli stranieri residenti in Italia a fine 2021 le donne siano il 50,9% (quasi 2,6 milioni), esse scendono al 42% tra gli occupati (949.000) per risalire al 52,5% tra i disoccupati (199.000). Inoltre, il loro tasso di occupazione (45,4%) è in assoluto il più basso, rispetto sia agli occupati complessivi (58,2%), sia alle donne italiane (51,4%), sia agli uomini stranieri (71,7%).
Tra le lavoratrici regolari, quasi 9 su 10 sono occupate nei servizi e la metà si ripartisce in appena tre professioni (collaboratrici domestiche, addette alla cura della persona e impiegate nelle pulizie). Nonostante siano più istruite degli uomini, le immigrate hanno molte meno possibilità di trovare un lavoro coerente con i propri titoli: è infatti sovraistruito ben il 42,5% delle occupate straniere, contro il 25,0% dei lavoratori italiani e il 32,8% degli stranieri in generale. Percepiscono una retribuzione media mensile di appena 897 euro al mese (-29% rispetto alle donne italiane e -27% rispetto agli uomini stranieri).
E se avere un lavoro prima del covid per una donna straniera non era facile, durante la pandemia è diventato ancora più faticoso. Secondo la Fondazione Moressa le donne straniere sono state la categoria che nel 2020 ha risentito maggiormente della crisi legata alla pandemia, perdendo 5,5 punti di tasso di occupazione (mediamente la perdita è stata di 1,6 punti). Questo perché collocate in settori a maggior impatto “Covid” (servizi, commercio, ristorazione) e perché di solito hanno un tasso di precarietà più alto.
Un capitolo a parte merita il progetto Welcome dell’Agenzia Onu per i rifugiati (Unhcr) che premia ogni anno con il logo Welcome - Working for Refugee Integration le aziende che nel biennio precedente hanno favorito l’inserimento professionale dei rifugiati. Nel biennio 2020-21 sono state premiate 107 aziende che hanno impiegato oltre 6.000 rifugiati, sostenendo il loro processo d’integrazione in Italia. In quattro edizioni, l’UNHCR ha assegnato il logo Welcome a 355 aziende, che hanno garantito percorsi d’inclusione lavorativa per migliaia di rifugiati.
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