Milan, anatomia di una crisi
La sconfitta dei rossoneri consolida il primato dell’Inter. Solo la Juve resta in scia, ma la partita con la Fiorentina era da rimandare. Attenti alla risalita del Napoli
I punti chiave
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«Povero Diavolo che pena mi fai», canta con voce struggente Riccardo Cocciante riferendosi alle sue disavventure amorose. Lo stesso, con uno spericolato cambio di scena, si può dire del Milan uscito tra i fischi e i lazzi dei suoi tifosi da San Siro dopo l’indecorosa sconfitta (0-1) casalinga con l’Udinese, squadra che finora non aveva mai vinto in campionato.
Ma non è dell’Udinese che dobbiamo parlare, e neppure del penalty farlocco che ha permesso ai friulani di dare la mazzate finale a un Milan lento e fragile come un pulcino bagnato. E ora son guai perchè il Milan si ritrova, alla vigilia del ritorno con il Psg, in una situazione di estrema fragilità. Con Pioli contestato e sottostimato, un attacco che segna col contagocce, la difesa sempre più vulnerabile e il terzo posto ormai a rischio.
Più che i sei punti di distacco dall’Inter (dopo 11 giornate non è il finimondo), quello che preoccupa è il senso di sfaldamento che danno squadra e società con l’aggiunta di quel ridicolo balletto su Ibrahimovic, considerato come una sorta di tutor carismatico da affiancare al tenero Pioli. A parte che lo stesso Ibra, almeno al momento, non sembra orientato ad accettare questo bizzarro ruolo da «capoclasse cattivo» che mette in riga i reprobi neghittosi, quello che non quadra è il senso dell’operazione.
L’ombra di Ibrahimovic su Pioli
Se la presidenza rossonera, con Gerry Cardinale accorso al capezzale del malato, non crede più in Pioli, allora lo dica chiaramente e, dopo la sosta della nazionale, prenda le misure adeguate. Ma se ha ancora fiducia in Pioli, come sembra trapelare i queste ore, allora la fiducia bisogna dargliela completamente. Pioli è stato l’uomo dello scudetto, l’allenatore che ha portato il Milan alla semifinale di Champions, partendo cinque anni fa da una squadra che era completamente allo sbando. A un tecnico così, per rispetto, non si può dire che ha bisogno di una figura esterna che motivi i suoi giocatori. È umiliante per Pioli, perché sembra che abbia bisogno della balia, ed è una scelta poco credibile per una società che aspira a essere moderna e «algoritmica» come ci ripete da quando il fondo americano Red Bird ha acquistato il Milan.
Ma come? Si parla di un nuovo stadio per essere in sintonia con i più prestigiosi club europei, si fa una campagna acquisti tutta centrata su un rinnovo di quasi metà del gruppo, dando il ben servito a un dirigente come Paolo Maldini, e poi chiedete al santone Ibra di tirarvi fuori dai guai? È questa la mentalità vincente americana? È questo il nuovo calcio che avanza di cui si è fatto tanto propugnatore Gerry Cardinale?
Qualche domanda, oltre a criticare giustamente Pioli (ultimamente sembra andar per rane), bisogna farla. Come mai tutti questi infortuni? Dieci sono tanti, visto che siamo solo a novembre. E come mai questi cali di tensione? Con il Napoli il Milan aveva disputato una buona partita. Possibile che una settimana dopo con l’Udinese abbia offerto uno spettacolo così modesto? E l’attacco? Perchè segna così poco? Cosa succede a Leao? Perchè un simile talento è così sfiorito?
Oltre alle responsabilità di Pioli, emergono anche quelle della società. Cambiare dieci giocatori in un colpo solo è stato un azzardo. In questa squadra, senza più Tonali, non c’è nessuno che detti il gioco. Manca un leader in un gruppo dove, a parte Calabria, non si parla più l’italiano. Il calcio ha delle regole non scritte che non si possono alterare in nome di una modernità solo di facciata. Prima Pioli poteva contare su Paolo Maldini, uno che quando parlava tutti lo ascoltavano. Adesso chi fa da raccordo? Dei manager venuti dal marketing o dalla finanza? Sono tanti, insomma, i nodi irrisolti del Milan. E purtroppo arrivano tutti in un momento delicatissimo. Pioli nel passato è riuscito a rovesciare a suo favore situazioni ben peggiori. Se ci riesce anche questa volta, inventandosi qualche altro miracolo, diventerebbe un nuovo supereroe della panchina. Pronto comunque per essere crocifisso alla prossima sconfitta.
Inter: ora comando io
Forse Pioli potrebbe chiedere consiglio a Simone Inzaghi, fino a sei mesi fa considerato un bravo perdente e ora santificato da tifosi e commentatori. Quando si vince il resto conta poco. E l’Inter, solitaria capolista, vince con una frequenza straordinaria. Battendo l’Atalanta a Bergamo (1-2), i nerazzurri centrano la quinta vittoria su cinque in trasferta. Una marcia trionfale che suona come un segnale forte per il futuro: nove successi in undici partite, 26 gol fatti contro sei subiti. Un passo da aspirante allo scudetto che può vantare un capocannoniere come Lautaro al suo 12esimo gol proprio contro i bergamaschi.
Una squadra solida anche psicologicamente, cosa che in passato lo era meno. E lo si è visto anche sabato. Fino al 40’ il pallino era stato dell’Atalanta. Forte, aggressiva, pericolosa. Però, quando l’Inter va avanti con un rigore dell’infallibile Calhanoglu, la scena si rovescia con il raddoppio di Lautaro, ormai incontenibile quando sente l’odore del gol. E anche quando Scamacca riduce le distanze, nessuno va fuori giri. L’Inter rispetto al passato, ha imparato a soffrire fino all’ultimo secondo. Barella, che saluta a fine partita i tifosi con un turbante in testa, è la fotografia di una squadra che lotta con le unghie e coi denti per la seconda stella. Obiettivo, se continua così, sempre più alla sua portata.
La Juventus batte anche la Fiorentina (0-1)
In uno stadio disertato dai tifosi della curva Fiesole, che avrebbero voluto un rinvio della partita in solidarietà con le vittime dell’alluvione che ha colpito la Toscana, la squadra di Allegri batte anche i viola centrando la quarta vittoria consecutiva. Un successo, quello ottenuto grazie al primo gol in campionato di Miretti, che permette alla Juve di stare in scia (a meno due) dalla capolista Inter. Ancora una volta, passati in vantaggio, i bianconeri hanno alzato un muro difensivo contro il quale, nonostante una forte pressione e diverse conclusioni pericolose, la Fiorentina è andata inutilmente a sbattere. Può non piacere, questa modalità a braccino corto, ma di sicuro è produttiva, visto che la Juventus da sei partite non subisce gol. Un cammino di tutto rilievo, anche se non sufficiente a indicare la Juve come principale avversaria dell’Inter nella corsa allo scudetto. Qualcosa di più lo si saprà il 26 novembre, dopo la sosta della nazionale, quando le squadre si affronteranno nel derby d’Italia.
Un appunto alla Lega, che non rinviando il match, ha perso un’altra buona occasione per dimostrare che il calcio non vive in un altro pianeta. Silenti anche i calciatori che pure, dopo lo scandalo scommesse, avrebbero dei buoni motivi per dimostrare che oltre ai piedi sanno usare anche il cervello.
Attenzione, il Napoli risale
I partenopei, come i salmoni, risalgono la classifica. Ora sono quarti facendo sentire il fiato sul collo a un Milan sull’orlo di una crisi di nervi. Per gli azzurri, che vincono senza sforzo (2-0) il derby con la Salernitana, il clima si fa più sereno. Gol e vittorie portano buon umore scacciano via le polemiche. Con due reti, una controversa di Raspadori e l’altra di Elmas nel finale, il Napoli conferma il suo attuale marchio di fabbrica: forte coi deboli e un po’ meno con chi ha le spalle più grosse come Lazio, Fiorentina e Real Madrid. «Io sono sempre più tranquillo», precisa Garcia, facendo il verso a chi lo dava anzitempo per bollito. In effetti, su questo il tecnico ha ragione. Se un giocatore non lo si giudica da come tira un calcio di rigore, un allenatore non lo si può giudicare dopo solo quattro partite di campionato. E poi, con l’arrivo di Osimhen, il futuro si fa ancora più roseo. I nuvoloni arriveranno dopo la sosta, quando in due settimana i partenopei se la vedranno con Atalanta, Real Madrid, Inter e Juventus. Un bel programmino. E se Garcia continuerà a essere tranquillo, allora per gli altri saran guai.
Roma, la paura fa 90
Ormai è un vizio conclamato, quello della Roma: vincere nel recupero, quando ormai tutto, compreso l’onore, sembra perduto. Anche col Lecce, all’Olimpico, i giallorossi, sotto di un gol fino al novantesimo, riescono a rovesciare la partita prima con un colpo di testa di Azmoun e poi con una stoccata di Lukaku che aveva pure sbagliato un rigore. Una volta si diceva in zona Cesarini. Ora che i recuperi durano all’infinito si finirà per dire zona Mourinho. Per ricordare a imperitura memoria che l’arte del lamento, alla fine, porta sempre qualcosa.
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