«Milano città aperta deve essere una realtà. Non una dichiarazione d’intenti»
Giovanna Forlanelli, presidente della Fondazione Luigi Rovati, è convinta che in un'epoca dalle disuguaglianze sempre più accentuate la classe dirigente meneghina debba ripensarsi
di Paolo Bricco
6' di lettura
«In Canada i medici di medicina generale prescrivono ai loro pazienti attività culturali. Come se fossero medicine. Pensiamo al morbo di Parkinson, al morbo di Alzheimer e all’autismo. Alcune ricerche mostrano gli effetti positivi dell’arte e della bellezza su chi vive queste patologie. Ma l’arte e la bellezza fanno bene sia ai malati che ai sani. Sperimentare l’incontro con la pittura, con la scultura e con i manufatti antichi fa provare un profondo benessere. Si va oltre al classico appagamento intellettuale e al tradizionale stimolo culturale. Vivere la dimensione, che è insieme intima e pubblica, di una visita in un museo, da soli o con altri, può sciogliere nodi dell’interiorità di ciascuno di noi: nella nostra sfera individuale e nelle nostre relazioni, negli affetti e nella famiglia. E, questo, può apportare anche benefici fisici. C’è una letteratura medica sui vantaggi dell’accesso all’arte in chi ha una malattia conclamata. C’è, invece, pochissimo sulle conseguenze positive dell’accesso all’arte e alla cultura in chi è considerato sano. Mio marito Lucio Rovati e lo staff della Rottapharm Biotech stanno pensando a una sperimentazione in doppio cieco, della durata di tre anni, che attraverso l’analisi dei parametri biologici riesca a cogliere l’influenza generata su chi è in buona salute da una visita al nostro museo».
Giovanna Forlanelli parla con passione del misterioso rapporto fra la bellezza e la felicità, l’esperienza estetica e la malattia, la comprensione scientifica dei nostri meccanismi fisiologici e il desiderio, nella quotidianità di tutti, di un equilibrio fra il vivere e il sapere. Giovanna è presidente della Fondazione Luigi Rovati, intitolata al suocero. Luigi Rovati, che è scomparso nel 2019 all’età di novantun anni, aveva fondato a Monza l’azienda farmaceutica Rottapharm, venduta nella sua parte commerciale nel 2014 agli svedesi di Meda per 2,2 miliardi di euro fra cash e azioni. Rovati è stato uno degli imprenditori italiani del Secondo dopoguerra portatori di un modello di frontiera tecnologica strategica – fra università e fabbrica, deep science e mercato – che oggi manca tantissimo al nostro Paese, dove in pochi si discostano dal midtech e dall’innovazione incrementale di prodotto e di processo.
Siamo a Milano, in corso Venezia 52, nel palazzo appartenuto alla famiglia Bocconi e alla famiglia Rizzoli, che adesso i Rovati hanno trasformato nella sede della fondazione e in un museo permanente di arte etrusca. Quest’ultimo ha la caratteristica di dialogare – dal punto di vista espositivo – con una collezione di arte contemporanea nata dai conferimenti personali dei membri della famiglia Rovati: «A me piace soprattutto l’arte contemporanea. Amo Lucio Fontana, non tanto i tagli quanto le ceramiche, William Kentridge e Sabrina Mezzaqui. L’arte etrusca è principalmente una passione di mio marito. Io ho sempre trovato modernissime e anticipatrici alcune sue linee», racconta Giovanna che nel 2018, con la sua casa editrice Johan & Levi, ha pubblicato L’ombra lunga degli etruschi, in cui Martina Corgnati ha rintracciato le loro influenze seminali nei quadri di Edgar Degas e di Henry Moore e nelle ceramiche di Roberto Sebastián Matta e di Gio Ponti.
Ci sediamo nel caffè bistrot che Andrea Aprea – due stelle Michelin nel 2017 con il Vun del Park Hyatt di Milano – ha aperto al pian terreno di questo edificio, che all’ultimo piano ospita il suo ristorante: «È la prima volta che faccio l’imprenditore. Ho sempre lavorato, fra l’Asia e l’Europa, nelle grandi catene alberghiere e nei ristoranti degli altri. È una cosa nuova, complessa ed emozionante», spiega Aprea mentre ci fa accomodare. «Il nocciolo duro culturale di questo luogo – prosegue Forlanelli – è sicuramente la collezione permanente etrusca. Abbiamo iniziato a ristrutturare l’immobile nel luglio del 2017: secondo una nostra stima, abbiamo generato una ricaduta complessiva di 80 milioni di euro e abbiamo creato 520 posti di lavoro. Naturalmente i numeri dell’attività ordinaria sono molto più piccoli. Ma, comunque, stiamo impostando un metodo, ci auguriamo, efficace per instillare benessere e novità in tutta la comunità. La scelta di proporre ad Andrea di fare per la prima volta l’imprenditore va anche in questa direzione».
Vedremo se Aprea saprà fare l’imprenditore. Di sicuro – e ci mancherebbe – sa fare il cuoco. «Assaggi il club sandwich di Andrea, è stato giudicato per due volte il migliore al mondo sulle pagine di critica gastronomica della rivista Monocle», dice Giovanna. «Lo faccio preparare subito», interviene lui con orgoglio. E, in effetti, il club sandwich di Aprea è veramente notevole. Con il club sandwich, ci portano focacce ricoperte di stracciatella e acciughe.
Il caffè bistrot è appunto al pian terreno dell’edificio storico che è stato curato, nella ristrutturazione e nella trasformazione in museo, da Mario Cucinella. E affaccia sul giardino progettato da Marilena Baggio, non a caso una specialista di architettura del benessere e di spazi verdi dalla cifra terapeutica. Il giardino è concepito come uno spazio aperto, di libero accesso per tutti i milanesi, non soltanto per i visitatori del museo o per i collaboratori della fondazione: «Non voglio sembrare astratta o retorica, ma esiste la necessità di aprire e di rendere beni pubblici, public goods direbbero gli americani e gli inglesi, luoghi delle città prima chiusi e appannaggio di pochi. Milano soffre di crescenti diseguaglianze. È spesso disorientata. E la sua classe dirigente deve ripensarsi. Molti amici sono rimasti stupiti, e forse risentiti, quando non ho fatto, come invece avrebbero voluto i riti ambrosiani, l’inaugurazione del museo etrusco e della fondazione a numero chiuso e a inviti. Ho soltanto aperto. Mi sembrava giusto così. Il giorno della apertura, è venuto chi voleva», dice con distacco critico e autonomia psicologica verso l’élite meneghina di old money e di new money una signora della borghesia lombarda che, da monzese con appartamento davanti al Parco di Monza («per me il più bel giardino d’Europa»), ha una solida radice in Brianza – uno dei luoghi, in realtà, più internazionali d’Italia – e che appartiene a una famiglia di imprenditori e di investitori che hanno fatto fortuna soprattutto sui mercati internazionali (ancora adesso la Fidim, la holding di partecipazioni della famiglia, ha un net asset value di un miliardo e mezzo di euro).
In tavola viene servito il piatto principale. Giovanna ha preso una insalata nizzarda. Io, invece, un piatto di spaghetti al pomodoro, uno dei classici di Aprea che si è sempre definito «un cuoco, prima di uno chef». Niente vino, è mezzogiorno.
Per Giovanna Forlanelli Milano non è il centro di tutto. In questo, è dissimile dalla borghesia milanese – professionale e imprenditoriale, culturale e politica – per cui ogni cosa buona è in fondo raggiungibile con la metropolitana. Per lei, piuttosto, Milano è un punto di passaggio – importante, anzi fondamentale, ma non unico – fra la propria identità e il mondo. Per Giovanna l’identità conta: «Mio padre Angelo, di Monza, faceva l’operaio edile. La famiglia di mia madre Bambina era di artigiani mobilieri e viveva a Seregno. Lei aveva un grande spirito imprenditoriale. Con le sue sorelle Amelia e Pinuccia aprì quattro pasticcerie a Monza, Meda, Seregno e Cabiate. Io, da ragazza, ho passato i pomeriggi del sabato e le mattine della domenica a riempire di crema i bignè e i cannoncini. Oggi mio papà ha 92 anni, mia mamma ne ha 90, e vivono ancora a Monza».
Lei, prima di laurearsi in medicina alla Statale di Milano, ha studiato al liceo scientifico Frisi di Monza. E, a sedici anni e mezzo, ha conosciuto in una vacanza studio in Inghilterra il futuro marito, che avrebbe studiato pure lui medicina, con cui ha avuto la figlia Lucrezia, anche lei laureata in medicina, secondo una linea famigliare inaugurata da Luigi, il fondatore dell’impresa che, figlio di contadini, si laureò in medicina all’università di Pavia: «Mio suocero aveva una personalità fortissima. Gli ho sempre dato del lei in azienda e in privato. Era un uomo degli anni Cinquanta. Aveva però il senso delle cose. Sorrideva quando gli ricordavo che una volta aveva detto che non avrebbe mai messo una donna a capo di una rete commerciale e, l’anno dopo, aveva dato a una dirigente la responsabilità della Germania».
Arriva in tavola la piccola pasticceria di Andrea Aprea, che ha naturalmente una intonazione napoletana come il suo autore, con babà e sfogliatelle minuscole. Giovanna spiega l’analisi compiuta prima di decidere che cosa fare qui e quale profilo assegnare al binomio fondazione-museo, nel delicato rapporto con la filantropia della grande borghesia internazionale: «L’arte contemporanea è più diffusa. L’arte antica è più rara. Mi piace molto come operano la Gulbenkian di Lisbona, creata nel 1956 dall’imprenditore armeno Calouste Gulbenkian, e il Berggruen Institute di Los Angeles del miliardario Nicolas Berggruen, che l’anno scorso ha aperto la sua sede europea a Venezia alla Casa dei Tre Oci».
E, mentre arrivano i caffè, Giovanna mi indica, al di là delle vetrate sul prato verde del giardino interno al museo-fondazione, una signora con le buste della spesa di un supermercato, che passeggia fino a una panchina e si siede: «Per me è molto importante che questo posto viva e sia frequentato da tutti. Milano città aperta deve essere una realtà, non una dichiarazione di intenti», dice con un sorriso cordiale ma non privo di sfida Giovanna Forlanelli.
loading...