Minare la libertà degli avvocati delegittima le sentenze
Se è vero che non può esserci verità al di fuori del rispetto di una procedura e che all’avvocato non possa che importare solo che il processo sia giusto nel metodo
di Giovanni Paolo Accinni
2' di lettura
Se è vero che non può esserci verità al di fuori del rispetto di una procedura e che all’avvocato non possa che importare solo che il processo sia giusto nel metodo, a distanza ormai di più di trent’anni pare che quanto occorso con Tangentopoli abbia determinato il mutamento proprio degli stessi meccanismi di formazione del consenso determinati dall’esposizione mediatica nella civiltà dell’immagine a valere più del merito; a far sì che il premio non sia assicurato ai migliori, ma ai più capaci di apparire.
È significativo rileggere la lettera che Gabriele Cagliari scrisse prima di togliersi la vita: «Sto per darvi nuovo, grandissimo dolore. Ho riflettuto intensamente e ho deciso che non posso più sopportare a lungo questa vergogna. La criminalizzazione di comportamenti che sono stati di tutti, degli stessi Magistrati, anche a Milano, ha messo fuori gioco solo alcuni di noi, abbandonandoci alla gogna e al rancore dell’opinione pubblica […] ci trattano veramente come non-persone, come cani ricacciati ogni volta al canile. […] ciascuno di noi, già compromesso nella propria dignità agli occhi dell’opinione pubblica per il solo fatto di essere inquisito, o, peggio, essere stato arrestato, deve adottare un atteggiamento di “collaborazione” che consiste in tradimenti e delazioni che lo rendano infido, inattendibile, inaffidabile: che diventi cioè quello che loro stessi chiamano un “infame”».
Rendere la persona “infida”, “inattendibile”, “inaffidabile”. Gli avvocati
“accompagnatori” e poi anche autori di proposte legislative in cui a valere come causa di non punibilità della corruzione o per le violazioni in materia di finanziamento ai partiti politici si proponeva di normativizzare (con l’autodenuncia) proprio la delazione, «fornendo indizi utili per l’individuazione degli altri responsabili» (Artt. 10-11 del progetto cosiddetto “Cernobbio”).
Lo stesso avvocato viene così ad assumere la pelle di Pubblico ufficiale, a caricarsi e a caricare sulle spalle dell’assistito l’onere di collaborare a ricercare la “verità”: una verità ottenuta con la normativizzazione della confessione a espungere il peccato e determinare la redenzione.
Con il che la professione cessa di essere libera e le libertà di tutti restano minate. Ma i mutamenti di pelle non dovrebbero mai poter toccare l’anima vera di essere avvocati: quella cioè di essere fedeli al proprio ruolo, rimanendo (anch’essi) indipendenti.
Per dirla con le parole di Fulvio Croce: «Fa l’Avvocato, ma non è Avvocato». E fare l’avvocato è difendere il proprio cliente nel rispetto delle regole del processo. Concorrere così alla formazione di una verità nel rispetto di regole procedurali. È la difesa che, con il suo contraddittorio, dà legittimazione alle sentenze dei giudici. Ecco perché all’avvocatura importa, e deve importare soltanto, che il processo sia giusto nel metodo: un metodo che non può essere stravolto neppure dal tradimento della propria funzione.
Il processo cessa di essere giusto nel merito allorquando si consenta che venga trasformato in una sorta di azione repressiva in nome della sicurezza, a significare che agli occhi dell’opinione pubblica il Pubblico ministero finisce per rappresentare l’intero mondo della giustizia: l’“eroe” deputato a ripristinare l’etica perduta. Da quegli anni la perdurante debolezza di parte dell’avvocatura ha concorso a fare sì che la forza del diritto abbia ceduto al diritto del più forte: l’accusa.
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