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Missione fallita sulle Pmi: cala il numero di quelle che esportano

Le imprese italiane che esportano diminuiscono. Aumenta la media del loro fatturato medio all’estero, consentendo all’export di veleggiare ancora con tassi positivi, ma sta di fatto che il numero di chi esporta è sempre più basso

di Carmine Fotina

2' di lettura

Le imprese italiane che esportano diminuiscono. Aumenta la media del loro fatturato medio all’estero, consentendo all’export di veleggiare ancora con tassi positivi, ma sta di fatto che il numero di chi esporta è sempre più basso. Il Rapporto annuale Ice , ricco di dati sulle rotte più dinamiche e sui settori più forti nel commercio estero, fotografa un aspetto nel quale le politiche di promozione degli ultimi anni non hanno avuto successo. L’imperativo , fin dal lancio del Piano straordinario per il made in Italy, nel 2015, è stato quello di aumentare il numero degli esportatori, soprattutto quelli stabili e non estemporanei.

Il Rapporto - sulla base dei criteri di rilevazione modificati dall’Istat ma resi omogenei con le statistiche degli anni precedenti - spiega che nel 2018 gli operatori del commercio estero erano 136mila, in calo del 2,4% rispetto al 2017. Il numero era cresciuto dal 2009 al 2013, per poi mostrare una dinamica discendente. Anche considerando le imprese esportatrici, un sotto-insieme degli operatori all’export, siamo di fronte a un calo sebbene il calcolo in questo caso riguardi il 2017: 125.920 in diminuzione dell’1%1% rispetto al 2016 e del 3,1% rispetto al 2013.

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Poi, certo, bisogna sgrezzare questo tipo di analisi valutando le differenze tra classi di imprese. Perché emerge con una certa chiarezza che sono le piccole e le micro imprese a non reggere la prova dell’export. La diminuzione degli operatori si concentra nelle classi da 0 a 2,5 milioni esportati annui, mentre le classi superiori sono in aumento, fino al +25,6% (tra il 2013 e il 2018) registrato dal gruppo di aziende che vendono all’estero più di 50 milioni all’anno. Sembra ad essere a tutti gli effetti un processo di selezione competitiva, a vantaggio delle medie imprese stabilmente presenti sui mercati internazionali. Le piccole imprese - nonostante iniziative di supporto pubbliche come i voucher per l’assunzione di export manager - sembrano rappresentare ancora un mondo a sé ed appena il 2% delle aziende fino a 9 addetti rientra nella categoria degli esportatori.

Questo costante riposizionamento verso l’alto dei protagonisti del commercio estero ha come effetto collaterale l’aumento del valore medio esportato per impresa. Gli esperti spiegano che si restringe il «margine estensivo» delle esportazioni - il numero dei player - ma si amplia il «margine intensivo», cioè quanto ognuno di loro fattura (dai circa 2,8 milioni di euro del 2013 si è saliti a oltre 3,3 milioni). E, in parallelo, è cresciuto anche il numero totale degli addetti nelle imprese esportatrici (+1,4% nel 2017).

Se queste dinamiche descrivono un sostanziale irrobustimento del nostro sistema industriale nei rapporti con l’estero, è opportuno chiedersi in che modo possa essere arginato il fenomeno di autoesclusione (o piuttosto di esclusione indotta da fattori competitivi) che sta contagiando le nostre imprese più piccole. E sarebbe utile avviare una riflessione sulla strumentazione di politica industriale, in particolare di politica promozionale, costruita negli ultimi anni. Affidarsi sempre ai soliti alfieri del made in Italy, confidando nelle loro capacità di esportatori abituali, va bene nelle fasi espansive del commercio internazionale. Ma non basterà più se tutte o anche solo alcune delle pesanti incognite segnalate dall’Ice nel rapporto si concretizzeranno.

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