Missioni all’estero, decreto dopo le Regionali. Ecco cosa può cambiare
Il governo lavora alla modifica degli assetti militari inviati nelle operazioni internazionali, ma al momento non ci sono pianificazioni consolidate
di Marco Ludovico
3' di lettura
Al di là degli annunci, sulle missioni internazionali c’è un solo fatto certo. Ogni anno il decreto di finanziamento, architrave giuridica ma innanzitutto atto politico del governo, approvato dal parlamento, è sempre cambiato. Accadrà anche stavolta. Non solo, come viene subito in mente, per la fibrillazione in Libia e in Medio Oriente. Il provvedimento è frutto delle valutazioni militari; degli equilibri diplomatici; delle esigenze finanziarie. E, soprattutto, degli indirizzi politici.
Tecnici al lavoro alla Difesa
Gli uffici del gabinetto del ministro della Difesa, Lorenzo Guerini, il vertice di Smd (Stato Maggiore Difesa) con il generale Enzo Vecciarelli e il Coi (comando operativo interforze) guidato da generale Luciano Portolano, sono i fulcri della definizione tecnica del nuovo decreto missioni. Poi, però, c’è l’input politico. Non a caso, Guerini ha detto alcuni giorni fa un fatto ormai sicuro: ci vuole «una riconfigurazione delle missioni all’estero». Ma non ha aggiunto altro. Sarebbe stato prematuro.
Il ruolo di Nato e Ue
La nostra partecipazione ha implicazioni differenti se facciamo parte di una coalizione, siamo sotto l’egida Nato o dell’Unione europea. Il peso dell’Italia cambia e sarà anche il caso che l’impegno finanziario e umano – in Medio Oriente siamo secondi solo agli Stati Uniti per il numero dei militari presenti – venga fatto pesare molto di più nei rapporti con gli alleati. A cominciare dagli Usa. Per vedersi riconosciuto un ruolo finora spesso sottovalutato. Al di là delle chiacchiere su un presunto risentimento americano sull’Italia per non aver approvato l’uccisione del generale iraniano Solimani.
Incrementi e riduzioni dei contingenti
Sul contingente in Afghanistan, per esempio, siamo stati fin troppo scrupolosi con l’alleato statunitense nonostante Trump abbia più volte annunciato, per poi non dare ancora seguito, il ritiro delle truppe. I nostri, invece, sono ancora lì. Ora, con il titolare della Farnesina, Luigi Di Maio, si parla di una nuova missione in Libia a guida Ue e comando italiano. Tema tutto da definire in una prospettiva ancora senza riferimenti precisi e concreti. Senza trascurare i rischi di sicurezza sul territorio: già altissimi ora, il cessate il fuoco Haftar-Serraj è violato di continuo. I pericoli si moltiplicherebbero con una missione rafforzata in assenza di nuovi equilibri consolidati.
Pesi e contrappesi istituzionali
Le decisioni finali sulle missioni – un eventuale ridimensionamento di quelle minori, una revisione di quella in Afghanistan già ventilata, una riorganizzazione del contingente in Iraq fino alla grande incognita libica – saranno il frutto di un processo che coinvolge i leader della maggioranza di governo, Pd e M5S; i ministri in prima linea – Difesa, Esteri, Mef per i profili economici, ma anche Interno per il rischio sbarchi e terrorismo – e il presidente del Consiglio Giuseppe Conte.
Il ruolo del Capo dello Stato
Senza dimenticare la voce più in alto di tutte: quella del capo supremo delle forze armate, il presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Nelle riunioni del Consiglio supremo di Difesa il Quirinale ha sempre posto l’accento sull’importanza strategica delle missioni. Non è esclusa una convocazione del Consiglio prima del varo del decreto.
La scommessa su Tripoli
Partita in ritardo, la macchina politica e diplomatica sulla crisi libica ora è in azione frenetica, compresa l’intelligence dell’Aise. Il presidente del Consiglio oggi, lunedì 13 gennaio, è dal leader turco Erdogan, poi sarà al Cairo da Al Sisi e negli Emirati. Di Maio è a Tunisi. Gli stati confinanti con la Libia, compreso Marocco e Algeria, sono in fibrillazione. È poi in vista una trilaterale tecnico tra Italia, Turchia e Russia, forse già in settimana.
La partita sul petrolio
Roma considera indispensabile, infatti, una de-escalation dell’attivismo di troppi Stati per sostenere Serraj, Turchia appunto e Qatar, e Haftar, con Emirati Arabi, Arabia Saudita, Egitto, la Francia sotto mentite spoglie, la Russia. Del resto la vera, grande partita, in Libia, è quella del petrolio. Lo scenario non detto, ma non così inverosimile, è una spartizione finale con l’Italia tagliata fuori e l’Eni alla fine costretta a uscire dallo Stato africano. Da scongiurare a tutti i costi.
Per approfondire:
● Missioni all'estero, Guerini: nessun taglio e rafforzamento nel Sahel
● Crisi Iran-Usa, dal Libano all'Iraq al Kuwait: le missioni italiane più a rischio
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