Moda,3 imprese su 4 a controllo familiare. Solo l’11% dei leader è under 50
I dati, estratti in esclusiva per Il Sole 24 Ore, fotografano un settore che sta invecchiando (il 30% dei leader è over 70) e tarda nel passaggio generazionale. Aziende che hanno perso in ’passato la competitività sui ricavi ma sono solide e redditizie
di Marta Casadei
4' di lettura
Il 75,8% delle aziende italiane di moda che fatturano oltre 20 milioni di euro l’anno è di proprietà familiare. Un dato che sale oltre l’80% se si stringe il focus sulle realtà con ricavi tra i 20 e i 50 milioni di euro. Le percentuali che emergono dall’estrazione dei dati dell’Osservatorio Aub sulle imprese familiari (Aidaf, UniCredit, Bocconi), fatta in esclusiva per Il Sole 24 Ore, sono nettamente superiori alla media nazionale: le aziende a controllo familiare in Italia, infatti, sono il 65% di quelle con ricavi superiori ai 20 milioni di euro. Quelle del sistema moda sono anche le realtà a controllo familiare con la governance più anziana: i leader over 70 sono 3 su 10, un dato superiore alla media italiana. E quelli over 50 sono solo l’11%, contro il 18% circa del campione nazionale. Tardano, quindi, i passaggi generazionali.
L’identikit
In generale, le imprese familiari della moda italiana, 587 su un campione complessivo di 774 aziende, realizzano 43,1 miliardi di euro di ricavi e quindi il 60% del fatturato complessivo (71 miliardi di euro) e impiegano 168.900 addetti. Secondo l’analisi dell’Osservatorio Aidaf, Bocconi e Unicredit, sostenuto anche da Borsa Italiana, Camera di commercio di Milano e Fondazione Angelini, nel sistema moda italiano le aziende a proprietà familiare sono attive principalmente nell’abbigliamento (68,1%), seguito da calzature (12,9%), gioielleria e orologi (10,6%) e borse (8,3%). A livello geografico, le famiglie controllano aziende di moda soprattutto in Lombardia (30,2%), dove c’è la concentrazione più elevata d’Italia anche di imprese fashion non a controllo familiare (44,4%), e in Veneto (22,1%). «Nel sistema moda troviamo una percentuale di aziende a controllo familiare molto superiore alla media nazionale – spiega Fabio Quarato, docente della Bocconi e managing director della cattedra Aidaf-EY di Strategia delle aziende familiari in memoria di Alberto Falck – perché, come accade in tutte le industrie creative, c’è una forte componente legata al fondatore e all’imprenditore. Si tratta però di aziende solide e redditizie che hanno le carte in regola per accrescere la propria competitività. Partendo magari dall’inserimento di manager esterni, per poi arrivare ad aprire il capitale o alla quotazione».
Le performance
Il tasso di crescita del fatturato, e cioè la crescita calcolata sui ricavi delle vendite (fonte Aida), mostra come, fatto 100 il dato 2010, i ricavi 2021 delle imprese di moda familiari siano risultati inferiori (212) sia rispetto ai ricavi delle familiari nazionali (243) – che invece nel periodo pre Covid (anni 2018 e 2019) erano pressoché equivalenti – sia a quelli delle non familiari di moda (291). Dai dati dell’Osservatorio Aub emerge soprattutto come una decina di anni fa ci sia stato un netto scostamento tra le performance delle aziende familiari e non familiari della moda italiana. Le non familiari del settore moda hanno registrato un aumento più rapido: il periodo di “stacco” è il 2013-2014 quando i ricavi delle imprese a controllo “esterno” sono saliti del 16% contro il 10% delle familiari. Forse complice la migliore capacità di gestione di sfide importanti che proprio in quel periodo si imponevano alle aziende del fashion: globalizzazione, e-commerce, investimenti nel retail.
I dati delle imprese familiari però risultano migliori sul piano della redditività: nel 2021 il rapporto tra reddito operativo e capitale netto (Roe, fonte Aida) è stato di 13,4, contro il 3,6 delle non familiari di moda, mentre il rapporto tra reddito operativo e capitale investito (Roi) è 9,1 contro il 7,4 delle non familiari. In entrambi i casi le aziende familiari hanno superato i livelli di redditività pre Covid. «Sicuramente in passato le aziende familiari hanno perso competività rispetto alle non familiari, che ricordiamo sono per lopiù filiali italiane di gruppi esteri – spiega Francesco Casoli, presidente di Aidaf – ma oggi sono aziende sane, pronte per fare aggregazioni. Il fatto che abbiano fatto meno investimenti rispetto alle non familiari non è negativo: per riorganizzare la governance ci vogliono denaro fresco e stabilità».
Famiglie tra tradizione e futuro
Il capitalismo familiare è stato per decenni, ed è tuttora, una cifra distintiva del sistema moda made in Italy. Qualcosa però sta cambiando, a partire dai big. Dei grandi nomi della moda italiana con fatturati sopra il miliardo di euro solo poche aziende sono rimaste nelle mani delle famiglie fondatrici: la Giorgio Armani, Otb e il Gruppo Calzedonia sono tra le non quotate; Zegna, Ferragamo, Tod’s e Prada tra le quotate. Complice il passaggio generazionale in corso, a inizio 2023 Prada ha dato un segnale importante: ha chiamato per la prima volta un top manager esterno – Andrea Guerra – a ricoprire la carica di ceo, in precedenza condivisa da Miuccia Prada e Patrizio Bertelli. Una scelta, quella di affidare il management a persone esterne alla famiglia, già fatta da altri gruppi come Otb e Ferragamo. E da aziende più piccole come Herno, che da qualche giorno ha nominato ceo Gabriele Baldinotti, o Fabiana Filippi che ha scelto Aldo Gotti a gennaio.
C’è poi chi, negli anni, ha scelto di aprire all’esterno non solo la gestione, ma anche il capitale: nel 2019 lo ha fatto la Trussardi (oggi in fase di pesante ristrutturazione e a caccia di un compratore), e prima anche le famiglie Etro e Missoni. Senza contare tutti marchi storici del made in Italy che oggi sono nel portafoglio dei grandi gruppi del lusso: da Gucci a Loro Piana. Che oggi figurano, appunto, tra le aziende non familiari ma sono frutto di storie di famiglia e, peraltro, sono fiori all’occhiello di gruppi esteri family owned.
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