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Molti indizi parlano di recessione, ma l’espansione potrebbe continuare

di Alessandro Penati

Lagarde: l'economia mondiale rallenta ma no recessione a breve

3' di lettura

Da mesi si discute del rischio di una recessione globale. La più prolungata ripresa Usa del dopoguerra (oltre 120 mesi) ha trainato il ciclo mondiale, ma sta cominciando a perdere forza propulsiva.

E l’ inversione della curva dei rendimenti dei titoli di stato statunitensi (tassi a breve più alti di quelli a lungo) storicamente anticipa le recessioni.

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Le guerre commerciali di Donald Trump hanno penalizzato il commercio internazionale e causato danni al ciclo produttivo oggi frammentato in diversi Paesi (supply chain), contribuendo a una contrazione globale dell’attività manifatturiera: per la prima volta dalla crisi l’indice Ihs Markit globale è sotto 50, un livello indicatore di contrazione. E la guerra con la Cina ha finito per danneggiare anche i Paesi dell’Eurozona, orientati più degli Stati Uniti al manifatturiero e all’export.

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Il livello di indebitamento globale è ormai superiore a quello precedente la crisi dei mutui subprime: si stima che negli ultimi 10 anni sia aumentato dal 180 al 220% del Pil mondiale. E le valutazioni nei mercati azionari e del credito sono storicamente elevate, specie alla luce delle prospettive e dei potenziali rischi indicati.

Nessuno di questi argomenti, però, convince pienamente. Di per sé la longevità del ciclo americano non implica che non possa durare ancora. Quello che conta è il grado di utilizzo delle risorse: raggiunta la piena occupazione, prezzi e salari cominciano a salire, erodendo margini e alimentando le aspettative di inflazione; per contrastarle, la banca centrale adotta politiche restrittive che in passato hanno innescato una recessione. Ma, per quanto prolungato, questo ciclo espansivo ha avuto un effetto cumulato sul Pil inferiore a quello di 5 delle 6 espansioni a partire dagli anni 60. Si spiegano così aspettative di inflazione a lungo termine ancorate al 2%. Ancor più basse in Europa e Giappone. Inoltre, anticipando l’eventuale rischio recessione, le banche centrali nel mondo, a cominciare da Fed e Bce, hanno già impresso una svolta espansiva.

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Il potere predittivo dell’inversione della curva dei tassi ha perso di significatività. L’operatività delle Banche centrali ha distorto le tradizionali determinanti del mercato dei titoli di stato: più che le aspettative di inflazione, la parte lunga della curva oggi sconta le attese sull’andamento futuro dei tassi a breve di politica monetaria. E la regolamentazione incentiva (o impone) acquisti di titoli di stato a lungo, a banche, assicurazioni e fondi pensione, gonfiandone artificialmente la domanda, a prescindere dai rendimenti (spesso negativi).

Diversamente dal 2008, l’elevato indebitamento globale non è necessariamente sintomo di crisi incombente. Si stima che metà dell’incremento del debito sia dovuto alla Cina, quindi è essenzialmente rischio sovrano. Quanto alle imprese, specie americane, ho sottolineato in passato che, in presenza di uno scenario duraturo di tassi bassi e inflazione, più che allo stock di debito si debba guardare all’interest coverage, che rimane storicamente elevato.

Rimangono gli shock esterni. Trump continuerà probabilmente la guerra commerciale nel 2020 alla ricerca della rielezione; ma credo che in parte sia già scontata nei prezzi delle attività finanziarie; e le Banche centrali si sono mosse in anticipo per contrastarne le ricadute negative.

Più che una recessione, ha forse più probabilità di realizzarsi uno scenario di continua, ma debole espansione. Questo non significa che il resto del 2019 sarà necessariamente esente da episodi di volatilità. Ma, a meno di shock imprevisti e imprevedibili, un vero crollo dei mercati, con l’ineludibile strascico di crisi finanziarie, è tutt’altro.

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