Monica Vitti, i due volti di un’icona amatissima
Aveva 90 anni. Diceva di sé: «L’attore ha due handicap, io tre: sono una comica cosiddetta, cioè un’attrice brillante, e allora prima di tutto si aspettano che io faccia ridere»
di Stefano Biolchini
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Monica Vitti ci ha lasciato. Era malata da tempo, e il suo vuoto - che perdurava da due decenni per la lunga malattia che la aveva allontanata dal pubblico - è oggi ancor più grande. Vogliamo ricordarla per quella sua aria “un po’ così”, sognante e romantica, ma anche per la sua inconfondibile verve auto-ironica, che ha fatto di lei la protagonista indiscussa della commedia all’italiana; prima ancora incompresa, depressa, struggente, rarefatta musa della quadrilogia dei sentimenti (L’avventura, La Notte, L’eclisse, Il Deserto Rosso) di Michelangelo Antonioni.
Senz’altro istrionica, amata attrice a tutto tondo è stata Monica Vitti: in lei due volti e due immagini che - anche se si respingono - sono essenziali per la storia del nostro cinema. Il 3 di novembre aveva compiuto 90 anni; nel 2002 la sua ultima apparizione pubblica, prima di ritirarsi a vita privata.
Monicelli racconta: «Nonostante facesse dei film con Antonioni, interpretasse personaggi da film muto, personaggi misteriosi, d’altri tempi, nella vita invece era vivace, divertente, piena d’umorismo».
La seconda Vitti conquisterà il pubblico mettendo in ombra la prima. Fu quello dal drammatico al comico un passaggio naturale per quest’artista insolita e versatile, capace di impugnare i propri personaggi con un’ironia straordinaria, proiettandoli oltre il grande schermo, e facendosi scudo e modello per le donne italiane. Donne ancora inerti davanti all’esclusione sistematica di una società maschilista e provinciale, masochisticamente relegate ad un ruolo subalterno. È lei in L’anatra all’arancia (1975) la borghese protagonista di una coppia radical-chic e finto-aperta che nella competizione con la segretaria “bambolona”, la quasi sempre “nuda” Barbara Bouchet, finisce per rivelarsi inevitabilmente gelosa e tradizionalista.
La tetralogia di Antonioni
La irraggiungibile, bellissima e incompresa, consacrata protagonista della tetralogia di Antonioni dalla fine degli anni 60 cambia decisamente registro per trasformarsi dunque in attrice comica, interprete politicamente consapevole dell’affermazione della donna nella nostra società. Dramma della gelosia (tutti i particolari in cronaca), di Ettore Scola (1970), Polvere di stelle, di Alberto Sordi (1973).
Dirà in un’intervista «Scoprire di far ridere è come scoprire di essere la figlia del re», e ancora: «L’attore ha due handicap, io ne ho addirittura tre: sono una comica cosiddetta, cioè un’attrice brillante, e allora prima di tutto si aspettano che io faccia ridere con una battuta; poi c’è il fatto che sono una donna e poi un’attrice».
Dea
Nella commedia le sue donne allegre e sospirate portano in controluce pulsioni distruttive, misogine, autolesioniste, masochiste. La sua Dea di Polvere di stelle è prima vittima sacrificale che diva d’avanspettacolo. In Noi donne siamo fatte così, di Dino Risi (1971), le contraddizioni di un rapporto fra i sessi in evitabile cambiamento si sfogano sul corpo della protagonista, a simboleggiare una liberalizzazione dei costumi contraddittoria e falsa. Spiegherà poi: «Le donne mi hanno sempre sorpresa: sono forti, hanno la speranza nel cuore e nell’avvenire».
È insomma la Vitti, insieme a Mariangela Melato, protagonista indiscussa sul grande schermo della trasformazione sociale degli anni 70. Una protagonista caricata dagli inconfondibili vezzi esplosivi della sua infinita energia e di tanti dubbi malinconici come spie di un progresso difficile a digerirsi. Di qui la recitazione di una diva che non si è mai atteggiata a tale, e che della recitazione barocca ed esasperata sa fare cifra senza esserne travolta. Proprio il registro comico rende il modello Vitti accettabile per il pubblico, non disturbante. Con gli anni la sua figura si arrotonda. Lo strano bellissimo viso, quasi nordico, e lo sguardo tagliente e segnato di bistro dei film di Antonioni lasciano il posto a un ovale più tondo e familiare. Il suo far ridere mette in secondo piano le gambe sempre bellissime.
Rassicurante
Buffa e ironica Monica è rassicurante come le sue commedie. Non per niente in quegli anni saranno le attrici straniere Charlotte Rampling, Catherine Deneuve, Maria Schneider a interpretare le inquietudini drammatiche del nostro cinema. Ma la Commedia all’italiana ha “la sua Vitti”: una che piace alle donne che in lei si identificano, mentre per i sogni dei maschi italiani si guarda all’estero. Commenterà lei stessa «Le attrici - diciamo - bruttine che oggi hanno successo in Italia lo devono a me. Sono io che ho sfondato la porta». Recita la Vittoria protagonista dell’Eclisse: «Ci sono giorni in cui avere in mano un ago, una stoffa o un uomo, è la stessa cosa». Chiaro, una così spaventava e spaventa. Se la Giuliana devastata di Il deserto rosso, vittima della società neocapitalistica, cui in una celeberrima battuta «fanno male i capelli» è troppo borghesemente in là, stretta nel suo cappotto verde, le difficoltà della Claudia de L’avventura si avvolgono di mistero per fissarsi lontane dai più, a Monica, finito il sodalizio artistico e non solo con Antonioni, non resta che reinventarsi.
Ovvio dunque per lei entrare in sintonia con il pubblico grazie a La ragazza con la pistola, di Mario Monicelli, 1968, giovane siciliana sedotta e abbandonata, o in Ninì Tirabusciò, la donna che inventò la mossa, 1970. Con Amore mio, aiutami, di Alberto Sordi, 1969, sono schiaffi a raffica. Ancora con Sordi, nel 1982 interpreta Lo so che tu sai che io so, film sull’erroneamente scontato quotidiano di una coppia romana. Il pubblico la ama, lei ci ride sopra. E con l’ironia, la riservatezza, lo stile che contraddistingueranno i suoi lunghissimi quaranta anni di carriera potrà perfino permettersi di sfidare i “benpensanti” senza eccessi e con intelligenza. «A letto succede di tutto», osava ammettere. Ma a una così, con quel sorriso e quella voce inconfondibile anche l’Italia d’allora non poteva che concedere. Schiva, Maria Luisa Ceciarelli, in arte Monica Vitti, dirà sempre molto poco del suo rapporto con Antonioni, durato un decennio. «Quanto Antonioni deve a me non lo so: non me lo sono mai chiesto e non desidero saperlo», sarà il suo commento. Nel 1995 riceve a Venezia il Leone d’oro alla carriera. Nel 2000 sposa il fotografo di scena Roberto Russo. Da anni non appare più in pubblico. La descrivono ammalata, per certo ancora indomita. Nel 1988 «Le Monde» pubblicò la notizia della sua morte. Lei ringraziò i giornalisti per una gaffe che di certo le avrebbe «allungato la vita». Oggi l’addio.
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