Morozov, il grande collezionista russo che amava Cézanne
In libreria “Storia di una dinastia russa e di una collezione ritrovata” di Natalia Semënova, per Johan & Levi Editore. Dal 24 febbraio a Parigi apre alla Fondation Louis Vuitton la mostra “The Morozov Collection”
di Ada Masoero
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Erano rivali ma con fair play, come si conveniva a esponenti del gran mondo; si stimavano, ma si sorvegliavano costantemente; a Parigi frequentavano le stesse gallerie e accadde anche che si contendessero lo stesso dipinto (un Manet, sfuggito però a entrambi). E le loro collezioni di «arte moderna occidentale», nazionalizzate entrambe nel 1918 dai rivoluzionari, andarono dapprima a formare il Primo e il Secondo Museo di pittura occidentale moderna, poi, nel 1923, confluirono confusamente in un unico museo, infine, nel 1948, furono smembrate su ordine di Stalin in persona, poiché le loro opere «formaliste» erano «prive di qualunque valore educativo per lo spettatore sovietico».
Museo Puškin di Mosca
Pochi dipinti furono destinati al Museo Puškin di Mosca, agli altri sarebbero toccati i più remoti musei di provincia o la distruzione: soprattutto a quelli di Picasso, aborriti dal nuovo direttore dell’Accademia di Belle Arti dell’Urss, che minacciò d’impiccagione chiunque avesse osato appenderne uno. In soccorso di questi capolavori venne per fortuna il direttore dell’Ermitage, che li salvò, chiudendoli nei magazzini del suo museo.
Sergej Ščukin e Ivan Morozov
I due collezionisti in questione erano Sergej Ščukin (1854-1936) e Ivan Morozov (1871-1921), magnati entrambi del tessile, incalcolabilmente ricchi e tenacemente innamorati di un’arte - quella degli impressionisti, dei post-impressionisti e delle prime avanguardie del ’900, fino al cubismo - che nessuno al mondo allora collezionava. Loro la amarono dalla lontanissima Russia, viaggiando due volte l’anno verso Parigi, per i Salon di primavera e d’autunno, occasione anche per visitare le gallerie di Durand-Ruel, Vollard, Bernheim e Kahnweiler e i palazzi dei più famosi collezionisti. Del primo si è commentata di recente in queste colonne la bellissima biografia di Natalia Semënova e André Delocque. Ora è la stessa Semënova a narrare la vicenda non meno appassionante di Ivan Abramovič Morozov e del fratello maggiore, il colto Michail Abramovič (1870-1903; spesso confuso con Ivan), anch’egli collezionista d’arte occidentale (fu il primo a portare un Van Gogh a Mosca), smodato giocatore d’azzardo, morto a 33 anni per il troppo cibo e il troppo alcol.
Compito non facile, il suo, perché se per Ščukin, dei cui dipinti “scandalosi” parlavano tutte le gazzette moscovite, aveva potuto contare su una messe di documenti, per il mite Ivan Morozov, riservato, schivo, silenzioso («un vitello dagli occhi buoni», secondo il pittore Sergej Vinogradov), non poteva basarsi che sulle fatture degli acquisti, da lui scrupolosamente archiviate, e sulla concisa corrispondenza con i galleristi. Tuttavia, scritto il volume su Ščukin, non avrebbe potuto esimersi dal dedicare a Morozov un’altra minuziosa ricerca, perché i due furono sempre appaiati, già da quando, a Mosca, conducevano le loro vite sfarzose. Lo stesso, del resto, accadrà presto alla Fondation Louis Vuitton dove, dopo la mostra epocale della collezione Ščukin (2016, 1,3 milioni di visitatori), è in programma - Covid permettendo - la rassegna The Morozov Collection, curata da Anne Baldassari, dedicata alle raccolte dei due fratelli Michail e Ivan, in cui tra l’altro sarà ricostruita per la prima volta la famosa Sala da musica decorata per Ivan da Maurice Denis.
“Gemelli”, dunque, Sergej Ščukin e Ivan Morozov? Per certi versi sì, ma gemelli diversi. Salutista, scattante e vegetariano il primo, gran mangiatore e bevitore - seppure non quanto Michail - il secondo (tutti i testimoni ne rammentano la flaccidità del corpo, contestando il ritratto lusinghiero, da «europeo azzimato», che gli fece Valentin Serov); irruente e sicuro di sé il primo, che a Parigi chiedeva ai galleristi di mostrargli tutti i dipinti e poi sceglieva d’istinto, riflessivo il secondo, che chiedeva di vedere «solo i quadri più belli», e si faceva consigliare da esperti; audace nelle scelte il primo, che amò subito i dipinti adrenalinici di Picasso e Matisse, più timido il secondo, che prediligeva tele rasserenanti. Eppure i due, salvo poche eccezioni, compravano gli stessi artisti. Ma sceglievano opere ben diverse: «quelle di Ščukin urlano, quelle di Morozov sono pacate», commentava lo scrittore e critico Abram Efros.
Sui Gauguin, Morozov era imbattibile
Delle due raccolte, quella di Ščukin era considerata la migliore ma, come in seguito avrebbe notato anche Alfred H. Barr, primo direttore del MoMA di New York, sui Gauguin, Morozov era imbattibile: meno numerosi di quelli di Ščukin, i suoi erano però più belli. E anche i 18 Cézanne (il suo prediletto) erano superbi.
Fu però a Maurice Denis, artista di valore al tempo dei Nabis ma poi scivolato in una pittura bamboleggiante che, nel 1907, Ivan commissionò la decorazione della Sala da Musica. Si era innamorato della sua arte nel palazzo del barone Denys Cochin, a Parigi, e non ebbe esitazioni. L’artista scelse il mito di Amore e Psiche e, sullo sfondo di paesaggi italiani, compose cinque enormi pannelli di quattro metri ognuno, stando ben attento - come scrisse ad André Gide - a non emulare la sala di Giulio Romano a Palazzo Te, «di un paganesimo sconvolgente». Non avrebbe potuto farlo in un ambiente come quello della buona società moscovita, ma tanto meno l’avrebbe potuto fare in casa di Ivan, che aveva appena sposato, dopo una lunga relazione e una figlia che restò sempre segreta, una corista di un ristorante di Mosca che offriva spettacoli di prestigiatori e lottatori da circo, oltre a due cori e che, caso unico a Mosca, concedeva alle sue cantanti di finire la serata con i clienti. E benché, dopo sposata, la giovane comparisse in società foderata di diamanti, tutta la Mosca-bene continuò a chiamarla sussiegosamente «Dosja la-la-la».
Dunque, scene caste. Ma anche zuccherose nei colori e rigide nelle forme, perché Denis, per consegnare in tempo, aveva affidato gran parte del lavoro agli assistenti. Quando le vide montate, a Mosca, capì che non funzionavano (sebbene attribuisse il fallimento anche ai «mobili grigio topo», che fece sostituire con divanetti, belli ma scomodissimi, disegnati da lui): smorzò i colori, progettò due sovrapporte e altri pannelli, questi a grisaille, e fece aggiungere quattro bronzee figure femminili di Maillol. A Ivan e signora, comunque, piacquero molto e non mancarono di sfoggiarli nei loro ricevimenti. La mostra della Fondazione Louis Vuitton darà, per la prima volta dopo oltre un secolo, l’occasione per giudicarli.
Morozov e i suoi fratelli. Storia di una dinastia russa e di una collezione ritrovata, Natalia Semënova, Johan & Levi Editore, Monza, pagg. 256, € 30
The Morozov Collection, Parigi, Fondation Louis Vuitton, dal 24 febbraio al 25 luglio 2021
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