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Morto Lino Capolicchio, attore di Strehler e «La casa dalle finestre che ridono»

A 78 anni se ne va un protagonista della cinematografia italiana anni Settanta. Tra «Il giardino dei Finzi Contini» e il lungo sodalizio con Pupi Avati

di Francesco Prisco

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3' di lettura

L’arte e il botteghino, i film d’autore e quelli di genere, lo sperimentalismo e il mestiere: il cinema italiano degli anni d’oro di Cinecittà oscillava tra questi due estremi che, per paradosso, finivano per combaciare. Vuoi perché, senza horror e poliziotteschi che riempivano le sale, non ci sarebbero stati gli Otto e mezzo e i Blow up. Vuoi perché, spesso e volentieri, i protagonisti di questi due mondi erano gli stessi. Come nel caso di Lino Capolicchio, morto a Roma nella serata di martedì 3 maggio a 78 anni: attore feticcio di Pupi Avati, protagonista de La casa dalle finestre che ridono, ma anche allievo di Giorgio Strehler e interprete del Giardino dei Finzi-Contini che valse a Vittorio De Sica un Oscar. Ironia della sorte, se ne va nella notte dei David di Donatello, premio da lui portato a casa nel 1971.

Gli esordi teatrali con Strehler

Altoatesino di nascita e torinese di formazione, si era trasferito in giovane età a Roma, quando Roma era tutto quanto il mondo per chiunque in Italia volesse provare a lavorare nel teatro e nel cinema. E Lino, che a Torino aveva fatto le prime esperienze teatrali con Massimo Scaglione, nella Capitale arriva per seguire le lezioni dell’Accademia nazionale d’Arte drammatica «Silvio D’Amico». Il ragazzo ha i numeri e così si ritrova, giovanissimo, alla corte di Strehler, a far parte della compagnia del Piccolo Teatro di Milano, facendosi notare nelle goldoniane Baruffe chiozzotte (1964). Tra i suoi estimatori non mancano i funzionari Rai, tanto che Capolicchio si ritrova scritturato per lo sceneggiato tratto dal Conte di Montecristo (1966), nel ruolo di Andrea Cavalcanti.

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Tra la Contestazione e «Il giardino dei Finzi-Contini»

Teatro, sceneggiati televisivi e cinema, in fondo, erano vasi comunicanti e Lino ha l’occasione di dividere il set con un certo Richard Burton nel super cast de La bisbetica domata di Franco Zeffirelli (1967). Se il primo ruolo di protagonista lo deve a Escalation di Roberto Faenza (1968), la notorietà arriva con Metti una sera a cena di Giuseppe Patroni Griffi (1969), dove interpreta la parte di Ric, giovane contestatore che piomba nelle vite di una ricca famiglia borghese, stravolgendole. Il grande Dino Risi lo vede come Il giovane normale (1969) mentre De Sica gli affiderà il ruolo di Giorgio ne Il giardino dei Finzi-Contini (1970), performance che varrà a Capolicchio il David di Donatello e al regista l’Oscar per il miglior film straniero. Non si nega ai film di genere (La legge violenta della squadra anticrimine di Stelvio Massi, per esempio). Dario Argento pensa inizialmente a lui come protagonista per Profondo Rosso ma Capolicchio è costretto a rinunciare a causa di un incidente di cui era rimasto vittima, rimpianto che gli resterà per tutta la vita.

Il lungo sodalizio con Pupi Avati

Thriller che perdi, thriller che trovi. A segnare la sua carriera c’è infatti soprattutto il sodalizio con Pupi Avati di cui diventa presto l’attore feticcio. Nel 1976 Capolicchio è interprete de La casa dalle finestre che ridono, horror ambientato nella bassa padana che inaugura il culto del regista bolognese. Di lì in poi tra Avati e Capolicchio sarà una lunga partnership, a cavallo tra cinema e Tv, con titoli dalle fortune alterne come Jazz Band (1978), Cinema!!! (1979), Ultimo minuto (1987), Le strelle nel fosso (1978) e poi Noi tre (1984), fino al recente Il signor Diavolo (2019).

Contro l’idea «mercantile» dell’attore

Ha fatto tantissimo, Lino Capolicchio, dentro e fuori dal set. È doppiatore e dà la voce ad alcuni dei più celebri personaggi della stagione dei telefilm americani sulle tv private, come il Bo di Hazzard. È talent scout e scopre Francesca Neri, Sabrina Ferilli, Pier Francesco Favino e Alessio Boni, non proprio gli ultimi arrivati. È docente al Centro sperimentale di cinematografia e si dice che un certo Francis Ford Coppola, in trasferta a Roma, abbia chiesto di assistere a una sua lezione. Aveva le idee chiare, quando parlava del mestiere d’attore: «A poco a poco si è venuta a insinuare un’idea mercantile di questa professione, non più legata a un’idea di cultura ma esattamente come avviene per un qualsiasi prodotto sottoposto alle leggi del mercato». Ha dimostrato con la sua carriera che la cosa più importante è perseguire l’«idea di cultura». Il «mercato», se lavori bene, prima o poi arriverà.

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