2' di lettura
«I bilanci che le società stanno per pubblicare sono cruciali, perché arrivano a oltre 12 mesi di distanza dal momento in cui le Banche centrali hanno avviato l’azione di politica monetaria restrittiva più energica degli ultimi decenni che inizia a impattare sugli utili, soprattutto in alcuni settori». Maria Municchi, gestore del team Multi Asset di M&G Investments non nasconde l’importanza che rivesta la stagione delle trimestrali ai nastri di partenza in Italia ed Europa e già ben avviata negli Stati Uniti, sposta però l’attenzione in particolare sulle indicazioni che i manager daranno per i trimestri successivi, «perché gran parte degli effetti dell’aumento dei tassi deve ancora manifestarsi, soprattutto in Europa».
La fase macro che stiamo attraversando appare del resto molto complessa: «Se da una parte vi sono segnali che la dinamica dei prezzi inizia a calmarsi, i livelli di base dell’inflazione restano ancora troppo elevati per gli obiettivi delle Banche centrali» rileva Municchi, aggiungendo che «allo stesso tempo alcuni indicatori prospettici come i Pmi puntano verso un rallentamento significativo dell’attività, soprattutto nel manifatturiero, mentre il mercato del lavoro continua a dimostrarsi solido». L’idea che si ricava dalle sue parole è insomma che la dinamica di trasmissione degli effetti della politica monetaria all’economia reale non sia ancora del tutto chiara.
Se guardiamo le Borse, di fronte a una simile incertezza gli investitori non sembrano preoccuparsi molto. Perché?
Il mercato appare a proprio agio con l’idea di un atterraggio morbido dell’economia che si è fatta strada negli ultimi mesi. Il permanere della volatilità su livelli estremamente bassi continua, inoltre, ad attirare flussi di denaro sull’azionario anziché verso l’obbligazionario, dove soprattutto sulle scadenze brevi si assiste a movimenti dei tassi più accentuati e quindi preoccupanti.
Ma le valutazioni dei titoli non le sembrano care? A maggior ragione se dovesse arrivare la recessione.
Non direi, non almeno in senso assoluto. Occorre però fare distinzioni: l’Europa e il Giappone sono ancora relativamente a buon mercato, mentre per gli Stati Uniti la vicenda è più complessa.
Perché ?
Il ristretto gruppo di aziende che ha determinato gran parte del rally di Wall Street ha valutazioni che non si sposano con i tradizionali canoni dei valori di price/earning. Se però le escludiamo non possiamo considerare caro neppure l’azionario Usa, anche se la nostra preferenza va altrove.
E l’Italia?
È un mercato azionario che appare relativamente ben prezzato, anche rispetto al resto d’Europa. Interessante poi notare che un indicatore specifico di rischio come lo spread fra BTp e Bund sembra aver perso importanza in questi ultimi mesi: è un segnale incoraggiante per chi vuole investire nel Paese, ma deve essere continuamente monitorato.
loading...