ServizioContenuto basato su fatti, osservati e verificati dal reporter in modo diretto o riportati da fonti verificate e attendibili.Scopri di piùIL colpo di stato

Myanmar, i generali restituiscono Suu Kyi al ruolo di icona della democrazia

Ma sul Nobel per la pace pesa la copertura dell’esercito nella pulizia etnica dei rohingya

di Gianluca Di Donfrancesco

Birmania in piazza, i generali minacciano la repressione

8' di lettura

La sua immagine campeggia su migliaia di poster, elevata dai birmani che riempiono le strade e le piazze, per rispondere all’appello a non arrendersi ai generali. Inneggiano al suo nome, mentre i Governi di (quasi) tutto il mondo osservano e ne chiedono la liberazione: Aung San Suu Kyi, l’astro trascinato alla sbarra per la pulizia etnica dei rohingya, torna a essere un simbolo, restituita dai suoi avversari di sempre al ruolo di perseguitata. Un simbolo che riempie lo spazio vuoto della sua assenza: dal giorno del golpe, il 1° febbraio, non è più apparsa in pubblico.

La figlia del generale

Quello con l’esercito birmano è il rapporto indissolubile che lega la vittima al carnefice. È dal fondatore del Tatmadaw che Suu Kyi (nata nel 1945) eredita la sua missione: dal padre, il generale Aung San, eroe dell’indipendenza birmana dal Regno Unito, assassinato dagli avversari politici. Era il 1947, Suu Kyi aveva due anni. Crescerà nel mito ingombrante ed esaltante di un padre martire. Molti anni dopo, mettendo fine a una vita “normale” in Inghilterra, ne prenderà il testimone e lotterà per oltre 25 anni per liberare il Myanmar dalla morsa dei militari.

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Dopo la morte di Aung San, la piccola Suu Kyi segue la madre Khin Kyi in India, dove la vedova arriva come ambasciatrice nel 1960. Poi in Inghilterra, dove nel 1967 si laurea al St Hugh’s College di Oxford in filosofia, scienze politiche ed economia. Qui conosce Michael Aris, studioso di cultura tibetana, che sposa nel 1971 e col quale ha due figli, Alexander (nato nel 1972) e Kim (nato nel 1977). Nel frattempo, il Myanmar si è chiuso al mondo, prigioniero della dittatura.

Ritorno a casa

È solo all’inizio del 1988 che Suu Kyi torna in quella che ancora si chiama Rangoon, odierna Yangon, per accudire la madre malata. Nelle strade cresce la rivolta contro il regime militare, che reagisce con una sanguinosa repressione: le vittime si contano a migliaia. Tanti dei manifestanti pestati e uccisi nelle strade portano con sé poster del generale Aung e vedono in sua figlia la «scintilla dell’impegno politico» che potrebbe accendere il fuoco della democrazia, come la definisce il giornalista e compagno di lotta Win Tin.

Suu Kyi si convince a fondare la Lega nazionale per la democrazia (Nld). Ad agosto arringa mezzo milione di persone in una manifestazione davanti alla Shwedagon Pagoda. I birmani si innamorano in fretta del suo coraggio, irriducibile perfino di fronte alla canna dei fucili dei soldati mandati a impedirne i comizi.

La scintilla della democrazia

A luglio dell’anno seguente, è già così ingombrante da spingere la giunta a relegarla agli arresti domiciliari, dove trascorrerà 15 dei successivi 21 anni. Una reclusione interrotta da brevi periodi di libertà molto limitata. Le vengono risparmiati i lavori forzati, le torture e la galera che consumano centinaia di oppositori: la figlia del padre della patria e fondatore del Tatmadaw è una questione delicata anche per un regime brutale come quello birmano, che preferirebbe vederla libera in esilio, piuttosto che prigioniera in patria.

I generali le offrono l’espatrio, ma Suu Kyi rifiuta una libertà che sa di resa, sacrifica alla causa il ruolo di moglie e madre e aggiunge un capitolo alla sua epopea. Le onorificenze internazionali fioccano, a partire dal premio Sakharov nel 1990 (revocato dall’Europarlamento nel 2020), seguito dal Nobel per la pace nel 1991. Il 10 dicembre a Oslo, alla cerimonia di consegna, lei non può esserci. A prestarle presenza e voce è il figlio 18enne Alexander, che ritira il premio e invita il mondo a non dimenticare le sofferenze del popolo birmano: nel 1990, nelle prime elezioni libere indette dalla giunta al potere dal 1962, la schiacciante vittoria della Nld era stata cancellata dai militari.

La prima revoca degli arresti domiciliari arriva nel 1995. Ma lasciare il Paese per visitare la propria famiglia non si può, se non rinunciando a rientrare nel Myanmar. Neanche quando al marito Michael viene diagnosticato il cancro, che nel 1999 lo avrebbe ucciso. I militari le offrono la possibilità di correre al suo capezzale. Ancora una volta l’«Orchidea di ferro» si impone di non cedere. Dal 1989, i due coniugi si erano visti solo in cinque occasioni.

Icona globale

Due volte Suu Kyi è stata bersaglio di attentati, nel 1996 e nel 2003, quando viene assalita a bordo di un convoglio, seguito da una folla di sostenitori, 280 dei quali restano uccisi. Si salva, ma torna agli arresti domiciliari. Intanto, l’eroina non violenta, che si ispira a Gandhi, affascina le opinioni pubbliche di mezzo mondo, che la elevano al rango di Nelson Mandela. Rem, Green Day, U2 sono solo alcune delle band che compongono brani in suo nome. Luc Besson la celebra nel film «the Lady».

Quella dell’icona globale della democrazia è un ruolo dal quale la stessa Suu Kyi cerca di difendersi: «Non mi è mai piaciuto essere chiamata icona, perché le icone non fanno nulla se non stare appese a un muro». Così diceva in una vecchia intervista, prima che l’Occidente cominciasse a ripudiarla per non essere stata all’altezza, nella sua vita da politico, delle irrealistiche aspettative suscitate da martire.

Libertà e rivincita

Ma il tempo della disillusione è ancora lontano. Appena dopo elezioni farsa, per Suu Kyi arriva la libertà vera: è il 13 novembre del 2010. Nel 2012 entra in Parlamento e si prepara per la grande rivincita sui generali, che arriva con il trionfo del 2015: il voto che la incorona. Nel giorno della vittoria che sembra suggellare la fine di un’era, Suu Kyi resta fedele a se stessa e invita alla calma il suo popolo: «Dobbiamo restare tranquilli. Il vincitore deve essere umile ed evitare comportamenti che possano offendere. La vera vittoria deve essere per il Paese, non per un gruppo di individui».

Il lavoro non è però finito. I militari si sono arresi a un processo di apertura, ma non rinunciano al controllo del Paese. Nella Costituzione del 2008 hanno inserito una clausola ad personam, che esclude Suu Kyi dalla presidenza del Myanmar, e si sono riservati il 25% del seggi parlamentari, con potere di veto sui ogni riforma della Carta.

Convivere con i generali

Presidente o meno, l’Orchidea di ferro è determinata a guidare il Paese che suo padre ha contribuito a liberare dal Colonialismo. E si fa ritagliare nell’ordinamento un ruolo ad hoc, non previsto dalla Costituzione, che le dà i poteri di un premier di fatto.

Quando Suu Kyi sale al timone, il Myanmar ha un Pil pro-capite di 1.270 dollari, contro i 1.670 del Laos, 5.370 della Thailandia e 7.380 della Cina. Oltre 2,5 milioni di bambini sono malnutriti e al 26% dei birmani mancano gli elementari mezzi di sussistenza. C’è poi la questione etnica: i bamar, gruppo al quale appartiene Suu Kyi, sono oltre i due terzi della popolazione di uno Stato mosaico, che ne conta 135.

Soprattutto, la giunta militare non è stata abbattuta, ha solo fatto un passo di lato, mantenendo il controllo dei gangli vitali del Paese. Attraverso il conglomerato Myanmar Economic Holdings (Meh), costituito nel 1990, sono felici di fare affari con investitori attirati da un Paese ricco di risorse, con un costo del lavoro bassissimo, e tutto da costruire (tra i militari che hanno interessi nel Meh c’è l’attuale capo del Tatmadaw, Min Aung Hliang).

Suu Kyi e i suoi uomini più vicini, che la seguono come i seguaci di un culto, temono che forzare la mano possa innescare reazioni autoritarie. La Nobel per la pace tenta allora una nuova trasformazione: da martire della democrazia a leader pragmatico. Cerca una difficile convivenza con i generali e si propone come interlocutore del grande alleato del Paese, la Cina.

Il rapporto della giunta, e del Myanmar, con Pechino non è sempre lineare. L’ingombrante vicino, che non ha mai mollato la presa sul Paese, non può essere ignorato. Come non si arrischia a provocare i generali, così Suu Kyi non sfida Xi Jinping. Si propone invece come interlocutore privilegiato, con una fitta rete di contatti e visite ufficiali. Non basterà a metterla al riparo. Mentre Suu Kyi si muove con prudenza, il contesto internazionale cambia, tanti Paesi cadono vittima di una deriva autoritaria globale, e Pechino, che lo scorso anno ha stroncato il dissenso a Hong Kong, è sempre più assertiva.

Crepuscolo di un idolo

La paladina della democrazia diventa vittima del suo stesso carisma e scivola in una gestione accentrata e autocratica del partito e del potere. La transizione democratica rallenta. Come ha affermato un diplomatico americano, Bill Richardson, Suu Kyi «sviluppa una leadership autocratica ed è eccessivamente dipendente da una piccola cerchia di consiglieri della vecchia guardia».

L’aura di eroina dei diritti civili scolora definitivamente con l’escalation della persecuzione dei rohingya, la minoranza musulmana: 1,3 milioni di persone prive di diritti, in buona parte confinate in campi profughi nel Rakhine, lo Stato a nord-est del Paese, e costrette a migrazioni drammatiche. Mostrare attenzione per loro, nel Myanmar a maggioranza buddhista e scosso da fermenti integralisti, significa perdere voti e consenso. Un rischio che Suu Kyi non vuole correre.

Nell’agosto del 2017, i rohingya sono vittima di una pulizia etnica e circa 730mila persone sono costrette a cercare scampo verso il Bangladesh, per sfuggire ad atrocità da genocidio: 10mila morti, stupri di massa, centinaia di villaggi incendiati, incarcerazione dei reporter che cercano di testimoniare la tragedia.

La disillusione dell’Occidente è amara. Suu Kyi si rifiuta di condannare le atrocità commesse dall’esercito, che non può controllare, e liquida le violenze come un «conflitto armato interno». Pur non avendo responsabilità dirette, si attira l’accusa di coprire i militari.

Così, l’11 dicembre del 2019, un Nobel per la pace si ritrova sul banco degli imputati della Corte internazionale di giustizia, all’Aja. Anche la Corte penale internazionale ha avviato un’inchiesta sul Myanmar, per crimini contro l’umanità. Nel 2012, a Oslo, nel discorso di ringraziamento per il Nobel ricevuto 11 anni prima, un’altra Suu Kyi aveva dichiarato: «Il nostro scopo ultimo deve essere creare un mondo dove non ci siano più profughi, persone senza casa e senza speranza, un mondo in cui ogni singolo angolo sia un vero santuario, dove sia possibile vivere liberi e in pace». E ancora: «Ovunque la sofferenza viene ignorata, ci sono i semi del conflitto, perché la sofferenza degrada, inasprisce e genera rabbia».

La storia si riavvolge

In patria, la popolarità di Suu Kyi non vacilla. Nelle elezioni di novembre del 2020, la Lega nazionale per la democrazia fa il pieno di voti, conquista oltre l’80% dei seggi contendibili e lascia le briciole al partito legato ai militari. Il voto, però, è duramente criticato dalle organizzazioni internazionali, perché ha escluso oltre un milione di rohingya e di appartenenti ad altre etnie.

Sul piano interno, i militari, che oggi hanno il volto del generale Min Aung Hliang, accusano il colpo e, forse, si sentono minacciati. Temono l’erosione del loro potere e si stancano di condividerlo. In fondo, nella vicina Thailandia, il Governo è retto da un generale in pensione, salito al potere con un golpe.

Cinicamente, nella dichiarazione con cui impone lo stato di emergenza, l’esercito birmano denuncia proprio le irregolarità nel voto di novembre e si appella a clausole costituzionali. Sono pretesti. Alla stregua dell’accusa rivolta a Suu Kyi per tenerla agli arresti: importazione illegale di alcuni walkie-talkie.

Il nastro della storia si riavvolge: Suu Kyi torna prigioniera dei generali, i birmani tornano in strada e l’Occidente torna a chiedere democrazia e libertà. Nessuno dei protagonisti, però, è identico a se stesso.

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