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Napoli campione d’Italia, ma la vittoria più difficile resta quella sui cliché

I ragazzi di Spalletti pareggiano in casa dell’Udinese: è il terzo scudetto della storia del club. Il Napoli di De Laurentiis vince «nonostante» Napoli, ma alla fine si consegna all’abbraccio della città

di Francesco Prisco

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6' di lettura

Basta un 1-1 in casa dell’Udinese e il Napoli conquista il terzo scudetto della propria storia. Al 13’ erano passati in vantaggio i padroni di casa con Lovric, pari partenopeo al 52’ con il solito Osimhen che, nell’esultanza, sfascia anche la mascherina. Un risultato storico che matura in trasferta, alla Dacia Arena, dove al fischio finale ci scappa anche l’invasione di campo, mentre a 870 chilometri di distanza il «Maradona» è comunque gremito per la visione collettiva su maxi-schermo della partita. E a fine visione parla Aurelio De Laurentiis: «Grazie, grazie, grazie. Voi mi avete sempre detto vogliamo vincere. E abbiamo vinto tutti quanti insieme». E promette altri titoli e poi la Champions.

Partiamo da dove tutti vorrebbero che partissimo: il Napoli è campione d’Italia per la terza volta nella sua storia, a 33 anni dall’ultimo precedente. Lo scudetto numero tre arriva nel 2023, alla 33esima giornata di campionato: un tripudio di «tre» - numero magico per eccellenza - saluta il lieto evento lungamente atteso nella città che ha fatto della Cabala il suo quinto Vangelo. Senza contare che Ricomincio da tre era pure il titolo dell’esordio cinematografico dell’icona locale Massimo Troisi.

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Partiamo da qua perché, quando raccontiamo Napoli, bisogna sempre raccontarne il cliché, la pizza, il mare, i vicoli, il murale di Maradona, la grande bellezza e Pulcinella, ultimamente frequentato più dai tifosi milanisti che napoletani. Questo dev’essere uno scudetto «simpatico», perché i napoletani hanno il dovere della simpatia. Guai a disturbare con visioni alternative: si arrabbiano i non napoletani e, sotto sotto, pure i napoletani, quelli che in pubblico ruggiscono contro gli stereotipi ma in privato sono i primi ad alimentarli e poi nutrirsene.

Partiamo da qua, ma per onestà intellettuale toccherebbe dire che è tutta oleografia, narrazione, né più né meno che un imbroglio. Perché il bello di questo terzo scudetto del Napoli sta proprio nel fatto che è il meno «napoletano» dei tre: ha vinto un Napoli cannibale, prepotente in campo e - giustamente - anche fuori. Questo è stato lo scudetto vinto dal lavoro di gente che - per larga parte della stagione - non ha fatto niente per riuscire simpatica a tutti i costi.

Napoli torna campione d’Italia

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Lo scudetto di Adl

È stato lo scudetto di Aurelio De Laurentiis, produttore cinematografico di nobile stirpe, il romano di origini irpine che ha costruito un’azienda familiare in cui - dettaglio non banale - a Castel Volturno, a 32 chilometri di distanza dallo Stadio Maradona, tutti i giorni lavorano 27 professionisti di 18 nazionalità diverse che tra di loro comunicano esclusivamente in inglese. È arrivato nel 2004, dopo il fallimento della Ssc Napoli che era stata di Maradona, ha messo l’attivo di bilancio al primo posto in tutte le gerarchie societarie e, ripartendo dalla Serie C, ha vinto il titolo in 19 anni. Giusto uno in più rispetto a quanti ce ne mise Ferlaino. E senza avere in rosa il miglior giocatore di tutti i tempi, comprato coi soldi del Banco di Napoli.

Il primo dell’era De Laurentiis è uno scudetto «alieno». E non solo perché gli azzurri per larga parte del campionato hanno fatto vedere calcio di un altro pianeta: è uno scudetto alieno dalle dinamiche su cui da sempre si regge la città. Lo è perché De Laurentiis è appunto un «papa straniero»: quelli come lui storicamente godono di scarse simpatie all’ombra del Vesuvio. La città al contrario s’innamora dei masanielli - gli eroi popolari: i Maradona, gli Higuain, i Sarri -, rivoluzionari senza camicia che qualche volta fanno la storia, ma quasi sempre finiscono con la testa tagliata. Non è un caso se Adl è stato per paradosso uno dei presidenti più contestati della storia del Napoli. Fino a settembre c’era chi gridava «A16», auspicando una sua rapida ritirata a Bari. Fino a inizio aprile, nonostante i fatti stessero dimostrando che aveva allestito il Napoli più forte di sempre, piovevano insulti.

Lo scudetto di Giuntoli

Alla faccia di tutti coloro, Adl ha vinto. E non solo: ha vinto nell’anno delle cessioni illustri di Insigne, Mertens e Koulibaly; degli acquisti degli illustri sconosciuti Kvaratskhelia e Kim che sembravano certificare una dismissione più dolorosa di quella di Bagnoli e invece certificavano soltanto l’incompetenza degli osservatori calcistici nostrani. Perché Kvaratskhelia e Kim erano lì, serviva soltanto un Giuntoli che se li andasse a prendere. E Adl otto anni fa ha avuto l’intuizione di affidare il mercato del Napoli a uno come Giuntoli. Sarà lui il primo fuoriclasse da trattenere a tutti i costi, a fine stagione. Variabile Juventus permettendo.

Lo scudetto di Spalletti

Adl ha vinto con Spalletti in panchina, un altro che non ha mai fatto niente per riuscire simpatico, sul quale pendeva il pregiudizio: parte forte, poi si ammoscia, fa bel calcio, ma non vince. Al massimo vince in Russia, se allena la squadra per cui tifa Putin. Quante ne abbiamo sentite su Lucio, certaldino che s’atteggia a santone, addirittura «villain» della serie Tv su Francesco Totti Speravo de morì prima. Scena madre, quella in cui Ilary lo definisce «piccolo uomo» per difendere il suo grande amore. Poi, si sa, il grande amore è finito a Rolex in faccia, mentre Spalletti è l’eroe che riporta lo scudetto a Napoli dopo 33 anni, impresa che vale quella di Ranieri col Leicester. Perché il tempo sa essere galantuomo.

Anche Spalletti è un fuoriclasse da trattenere: se devono parlare i risultati raggiunti, è il miglior tecnico della storia del Napoli senza se e senza ma. Perché Bianchi aveva Maradona, Ancelotti voleva CR7, Benitez voleva Mascherano, Sarri piangeva Higuain eccetera. Spalletti ha fatto il presepe con i pastori che aveva. E così ha costruito quello che per lunghi tratti della stagione è stato il Napoli più forte di sempre. Un anno fa i soliti ultrà lo contestavano, eppure avrebbero dovuto saperlo: l’ultimo certaldino passato da queste parti andò a finire che scrisse il Decameron. Vedremo se resterà, ma in ogni caso dovremo dirgli grazie per quest’annata memorabile.

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Si poteva fare di più?

Si poteva fare di più? Partiamo dal presupposto che a Ferragosto 2022, prima di campionato, tutti a Napoli ci avrebbero messo la firma per arrivare fin qua. Facciamo però qualche distinguo: se parliamo di calcio giocato, è stato Napoli cannibale fino all’ultima pausa delle Nazionali. Poi qualcosa deve essersi rotto: a livello di forma fisica (fanno fede gli infortuni), ma ancora di più mentale. Vedi l’uscita ai quarti di Champions col Milan, quando tutti ti davano già vincente, o il match-ball scudetto sprecato. Se parliamo di ciò che gira intorno al calcio giocato, è stato esaltante vedere il Napoli di De Laurentiis procedere in direzione ostinata e contraria per larga parte della stagione.

Poi anche là dev’essere accaduto qualcosa. Una specie di riconciliazione maldigerita tra il Napoli che vince nonostante Napoli e la Napoli che «nun adda cagna'» (citazione dal capolavoro No grazie, il caffè mi rende nervoso), l’eterno ritorno al cliché che la città purtroppo anela. Eccoti il patto del Britannique (con tanto di selfie) tra De Laurentiis e gli ultrà che lo contestavano, a quanto pare auspicato dalle stesse istituzioni cittadine. Eccoti le conferenze stampa congiunte con Comune e Prefettura, il pressing per rinviare dal sabato a domenica 30 aprile la grande festa di Napoli-Salernitana per apparenti ragioni di ordine pubblico che ha partorito soltanto un piano trasporti fallimentare. Un’inversione a «u» del thatcherismo di Adl che forse un giorno qualcuno ci spiegherà, ma di sicuro possiamo dire che in campo non ha portato benissimo.

Cosa resterà di quest’impresa

Veniamo comunque alla questione definitiva: cosa resterà di questo Napoli campione d’Italia 2023? Osimhen vestirà ancora la numero 9, l’anno prossimo? Kvara sarà ancora qua? E Kim? Consentiteci di dire che queste sono fesserie di caffé. La lezione più bella che arriva a Napoli dalla gestione di De Laurentiis è che si vince nonostante il cambiamento. Anzi: probabilmente si vince proprio «grazie» al cambiamento, un concetto che nelle orecchie dei napoletani ha sempre fatto una certa fatica a entrare. Mica per caso Pasolini definiva la metropoli partenopea «una sacca storica».

Riuscirà poi questa stagione ad aprire un ciclo, per il club e la città cui è intitolato, oppure resterà una formidabile anomalia, come lo furono il settennato maradoniano e il rinascimento bassoliniano? Tutto sta a Napoli, ai napoletani e alla loro capacità di accogliere il cambiamento. Ci piacerebbe essere ottimisti, ma la cronaca degli ultimi giorni racconta il cliché di Napoli che divora il Napoli cannibale. Altro che grande bellezza: è una grande certezza.

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