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«Napoli mon amour», Forgione e il racconto (intimo) di una generazione

di Serena Uccello

Napoli mon amour

3' di lettura

Chiunque conosca il peso dell’attesa sentirà quanto struggenti sono queste pagine. Potrà comprendere cosa sia attendere che accada qualcosa, invano. Ciò che deve accadere cioè non succede mai. Così le giornate diventano un intermezzo tra l’accensione di un desiderio e la constatazione del suo essere, ancora una volta, irrealizzabile. Il pianto che è sul punto di esplodere ma non esplode. La sensazione fisica delle lacrime che possono inumidire gli occhi ma lì si fermano, con la gola che resta schiacciata da un nodo che la comprime senza stritolarla. Piangere sarebbe urgenza , un atto di quiete, uno spazio di benessere. Ma niente: il pianto non avanza e sostiene lo struggimento.

Una voce, un sussurro
Nella lettura di Napoli mon amour (NN Editore, pp.223, 16 euro) di Alessio Forgione l’invito è: procedere con lentezza, concedere alla scrittura il tempo di aprirsi, mostrarsi. La voce di Forgione è infatti un sussurro. Occorre liberarsi dal frastuono per riuscire ad ascoltarla. Forgione è nitidamente Amoresano, il suo protagonista. Amoresano ha trent’anni, Forgione trentadue. Forgione ha lasciato Napoli per Londra. Anche Amoresano sceglie di lasciare Napoli . Come? L’unico dato ovvio è la cattiveria di una città che rifiuta il futuro e le opportunità. Il resto è sovvertimento: pagine dal cielo scuro, sempre pieno di nuvole queste. Non c’è alcuna luce che abbaglia e il mare non è consolazione ma limite, argine, prigione. Malessere generazionale quello di Amoresano: gli studi, un lavoro precario e, intuiamo, mal pagato per cinque anni e ora più niente. Il telefono non squilla e quando squilla porta la voce del sopruso. Tuttavia Forgione rifugge da qualsiasi rivendicazione sociale: il suo è un romanzo apolitico, potremmo definirlo «tutto dentro il protagonista».

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«Mi sentivo messo da parte: una stupida e ignobile particella di un tutto che non mi considerava, che non mi ascoltava. In particolare, mi dava fastidio l’idea di una bellezza che esisteva e non potevo toccare; reagivo come potevo, scomposto, immaginando il candore, il bianco diffuso sui palazzi, sulle macchine, sulla strada e i cani camminare stupiti odorando la neve, e i bambini correre, cadere e rialzarsi ed io in piedi, immerso nel bianco, con i vestiti bagnati, con gli occhi socchiusi per la rifrazione della luce. Guardavo e godevo. Riuscivo anche a immaginare i problemi, gli ingorghi che avrebbe provocato in una città non pronta e caotica di suo, ma nonostante tutto tifavo per la neve. Per le sue proprietà lenitive e coprenti. Tutto quel bianco sul senso di colpa, fino a seppellirlo in profondità. Sarebbe stata un’ottima scusa, una nuova, per continuare a non far niente».

La sottrazione (con l’amore)
Ma Forgione si libera anche dalle tentazione di connotare il suo Amoresano come un marginale: centrata in questo senso la scelta di affiancargli la voce di Russo che marginale lo è veramente. Vinto prima ancora di cadere sul campo di battaglia. Amoresano è invece un ribelle, sceglie cioè di sottrarsi. Prima attraverso l’amore.

«Trent’anni di vita vissuta e sei passati a lavorare per una compagnia di navigazione; tre anni e mezzo, giusti giusti, su una nave, in giro per il Mediterraneo, sgobbando ogni giorno, tutto il giorno e, nonostante tutto, mi rimanevano solo 1500 euro. Mi divenne chiaro fin da subito che non mi potevo più permettere nemmeno l’idea di ricominciare a Londra o da qualsiasi altra parte e che anche il solo pensiero era diventato un lusso. Poi pensai che Nina mi stesse succhiando i soldi dal cuore, insieme all’amore, se amore lo si poteva chiamare. La maledissi e poi maledissi me e il lavoro e l’inutile università e tutto il resto del creato... Mentre la baciavo, pensai che forse la povertà era quella cosa lì: essere felici, ma sapere che quella felicità non sarebbe durata a lungo, perché mentre durava ed esisteva c’era già qualcosa di nocivo, nel resto del mondo, nel resto della propria vita, nell’aria e anche nella felicità, che minava la felicità stessa. Le dissi che niente andava bene e che con lei andava bene ma poi, lasciando al tempo la possibilità d’agire, neanche il nostro stare assieme sarebbe andato bene. Le dissi che a deludermi era l’impossibilità che qualcosa, per una volta, funzionasse con facilità; che mi sarebbe piaciuto riuscire in qualcosa con naturalezza, come se ci fossi nato, senza dover faticare».

Tornare ai maestri
E poi quando l’amore fallisce da se stesso e dalla sua scrittura. Come nella vita di Forgione infatti anche in quella di Amoresano centrale è l’incontro con Raffaele La Capria. Il suo Ferito a morte è immaginario che Forgione sceglie di condividere con Amoresano. E la scena dell’incontro non è fiction. Soluzione antica: tornare ai maestri e alla loro capacità di trasferire sapienza. Perchè la rivoluzione è la conoscenza. E il compimento del proprio talento coincide con la rivalsa sociale.

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