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Naturalizzazione brasiliana, solo la rinuncia esplicita priva gli italiani della loro cittadinanza

Nessun automatismo nella perdita della cittadinanza italiana per effetto della naturalizzazione di massa, disposta per decreto dal Governo brasiliano nel 1889

di Patrizia Maciocchi

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2' di lettura

Nessun automatismo nella perdita della cittadinanza italiana per effetto della naturalizzazione di massa, disposta per decreto dal Governo brasiliano nel 1889. Con la sentenza 25318 la Cassazione nella sua composizione più autorevole, quella a Sezioni unite, accoglie il ricorso dei discendenti di alcuni italiani emigrati in Brasile, che rivendicavano il diritto alla cittadinanza italiana. Una richiesta alla quale si opponevano i ministeri degli Affari esteri e dell’Interno, respinta dalla Corte d’appello.

Secondo i giudici territoriali, infatti, solo una rinuncia esplicita alla cittadinanza brasiliana avrebbe consentito di mantenere quella di origine e di trasmetterla iure sanguinis ai discendenti. Per le Sezioni unite, che sottolineano l’importanza della questione trattata, il semplice silenzio non basta invece per rinunciare ad un diritto fondamentale come quello della cittadinanza affermato dalla Carta, ma serve un atto individuale, volontario ed esplicito, che ha valore in virtù della libertà individuale.

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Serve il consenso esplicito

Per la trasmissione alla discendenza si deve accertare che la persona all’epoca emigrata, abbia compiuto un atto indicativo della volontà di acquistare la cittadinanza straniera, come ad esempio la domanda di iscrizione nelle liste elettorali del luogo. Mentre è ininfluente aver stabilito all’estero la residenza, stabilizzando anche la propria condizione di vita. E dunque nessun valore ha la mancata reazione al decreto brasiliano del 1889.

Nè la perdita della cittadinanza può essere collegata, come affermato dalla Corte d’Appello, «dall’accettazione di un impiego da un governo estero senza permissione del governo italiano». Una circostanza prevista dal Codice civile del 1912 abrogato. Per le Sezioni unite però l’impiego di cui parla il vecchio codice, non può essere inteso come un lavoro qualunque, pubblico o privato, ma come «l’assunzione di pubbliche funzioni all’estero tali da imporre obblighi di gerarchia e fedeltà verso lo Stato straniero, di natura stabile e tendenzialmente definitiva». Così dopo oltre 110 anni la Cassazione - che sul tema si era espressa nel 1907 a sezioni semplici con una lettura analoga a quella fornita ieri - torna ad occuparsi delle naturalizzazioni di massa. E lo fa a Sezioni unite per mettere un punto fermo, forte anche della Costituzione, che attribuisce alla cittadinanza il rango di diritto fondamentale, al pari di quanto fa la Dichiarazione universale dei diritti dell’Uomo sempre del ’48.

Il precedente di Crispi

E prima della Cassazione fu il presidente del Consiglio del Regno d’Italia, Francesco Crispi, ad avanzare dubbi sull’effettività della via d’uscita offerta agli italiani dal decreto brasiliano. L’atto concedeva infatti sei mesi per rinunciare alla cittadinanza imposta per legge, alla quale non corrispondevano peraltro in automatico diritti civili, come il voto. Per Crispi un rimedio illusorio non praticabile per i coloni italiani, spesso analfabeti e lontani dai centri in cui erano le autorità.

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