domande scomode

Nel 2021 il mercato dell’arte ha ancora bisogno dell’Unesco?

Gli scivoloni del segretariato Azoulay portano a ripensare il ruolo dell'organizzazione internazionale nella difesa del patrimonio culturale nel prossimo anno

di Giuditta Giardini

3' di lettura

Il 2020 doveva essere un anno di celebrazioni per l' Unesco, ha compiuto cinquant'anni la Convenzione del 1970 concernente le misure da adottare per interdire e impedire l'illecita importazione, esportazione e trasferimento di proprietà dei beni culturali, ma le polemiche non sono mancate. Il motivo? Il ruolo estremamente politico che l'Unesco ha assunto negli ultimi anni ha inevitabilmente tirato dietro le critiche dei principali soggetti del mercato dell'arte colpiti dalle “sparate” dell'organizzazione con sede a Parigi.

La metamorfosi da animale diplomatico ad animale politico si è avuta con il cambio di direzione. Con la bulgara Irina Bokova al comando, l'Unesco si era guadagnato un posto fisso nel Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite di New York con tanto di voce in capitolo su tematiche relative al traffico illecito di beni d'arte, lotta al terrorismo e peace-keeping. Dal 2017, con la direttrice francese Audrey Azoulay, ex ministro dei beni culturali, molte teste sono saltate e, alcune, sono state sostituite con un personale più politico.

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Audrey Azoulay

Per fare qualche esempio del recente operato, quest'anno, l'Unesco è stata la prima organizzazione internazionale a dare i numeri certi del traffico illecito dei beni d'arte definendolo di un volume pari a 10 miliardi di dollari e terzo per dimensioni dopo quello della droga e delle armi. Poi, quando il 12 novembre «The ArtNewspaper» ha chiamato il segretariato per confermare le cifre, il portavoce dell'organizzazione con sede a Parigi avrebbe indicato come fonte esperti del mercato dell'arte “tra cui Marc André Renold”, professore presso il Centre du Droit de l'Art dell'Università di Ginevra . Tutto sarebbe filato liscio, se Renold non avesse smentito di essere la fonte di quei numeri dichiarando: “non so da dove questa cifra provenga, ma certamente non da me”.

Inoltre, negli ultimi anni, l'Unesco è in prima linea nel ricevere segnalazioni da parte degli Stati Membri di beni rubati offerti nelle aste internazionali per poi denunciare le vendite pubblicamente. Si tratta di interventi occasionali, sollecitati da sporadiche segnalazioni in quanto l'Unesco non è un organo di polizia. Così agendo, però, l'organizzazione si sta muovendo su un cammino accidentato potendo mettere a rischio indagini di lungo corso e assai complesse contro “trafficking ring” per cui l'offerta in asta è solo la punta dell'iceberg di una catena criminale molto più estesa.

Una nuova voce

Anche sul fronte della Convenzione del 1972 sul Patrimonio Culturale Mondiale si registrano fallimenti: il primo, riconosciuto da Francesco Bandarin, ex direttore generale cultura, è di non essere stati in grado di salvare Venezia e neppure di aver protetto la riserva naturale dei Tre Fiumi Paralleli dello Yunnan (Tibet) e, da ultimo, di non aver denunciato il genocidio perpetrato contro gli Uiguri e la distruzione dell'antica città di Kashgar e le sue moschee (Cina). Per questo Bandarin con altri esperti hanno fondato nel novembre 2020, Our World Heritage , una sorta di watchdog per controllare le mosse del segretariato della Convenzione Unesco del 1972. La goccia che ha fatto traboccare il vaso è stata la recente campagna pubblicitaria Unesco contro il traffico illecito dell'autunno 2020, “The Real Price of Art”, il vero prezzo dell'arte, concepita assieme all'agenzia francese di comunicazione DBB . Nelle immagini circolate sul web e all'interno dei giornali del settore, venivano riprodotti interni di lussuosi appartamenti con opere d'arte e lo slogan “How much for the soul of a nation?”, ovvero: “Quanto per l'anima di una nazione?”. Una campagna di impatto ambiziosa che punta il dito contro enti pubblici e privati. Anche questa volta, tutto sarebbe andato per il meglio, se l'Unesco non avesse deciso di includere all'interno delle case tre oggetti di proprietà del Metropolitan Museum di New York , lasciando presumere che questi fossero stati rubati senza alcuna valida prova. Uno degli oggetti era una testa di Buddha che si dichiarava rubata nel museo di Kabul nel 2001 e accompagnata da una scritta “il terrorismo è un fantastico curatore”, ma, in realtà, la statua era entrata nella collezione del Met nel 1930, molti decenni prima dello scoppio della guerra in Afghanistan. Questa mossa ha suscitato le furie del più grande museo americano che si è sentito accusato pubblicamente, così l'Unesco ha ritirato le immagini incriminate scusandosi alla bell’e meglio, ma la campagna resta ancora.

Testa di Budda mostrata nella campagna contro il traffico illecito dell'autunno 2020 “The Real Price of Art”

Forse, dopo l'ennesimo scivolone, servirebbe anche per la Convenzione del 1970 sul mercato dell'arte un organo esterno di controllo? La domanda a questo punto sembra lecita e retorica: nel 2021 il mercato dell'arte ha bisogno di un Unesco politico e poco credibile, o necessiterebbe di una figura più tecnica e rispettosa degli equilibri della diplomazia e confidente nel mercato?

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