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Cootie è un ragazzo nero di Oakland alto poco meno di quattro metri. L’hanno cresciuto gli zii proteggendolo dal mondo, spaventandolo con un album di ritagli di giornale sulla triste sorte di altri giganti. Gli costruiscono una casa su misura e lo educano alla lettura, ma i suoi soli amici sono in Tv (dove va in onda un cartone animato sull’angoscia esistenziale con la voce, tra gli altri, di Slavoj Žižek) e nel fumetto The Hero, dedicato a un supereroe. Quando attraverso la siepe conosce i ragazzi del quartiere, scopre che la vita reale è ben diversa. In particolare tra loro c’è Jones, una attivista dotata del super potere di illustrare i propri discorsi politici in una sorta di rappresentazione teatrale.
Ed è qui che il regista e autore Boots Riley dà del suo meglio, spingendo all’estremo il pedale dell’assurdo e allo stesso tempo dando corpo a discorsi militanti e radicali sul capitalismo, la disoccupazione, la criminalità e la polizia. Riley, frontman dei rapper The Coup, ha già portato il proprio stile e temi al cinema in Sorry to bother you, e nella serie Sono vergine sceglie di allargare le maglie e riflettere anche sui supereroi, così dominanti nella nostra cultura popolare. La sua tesi è che, anche quando le opere che li riguardano sono abbastanza astute da nasconderlo, i supereroi siano comunque dalla parte della classe dominante, infatti il suo Hero è un miliardario come Tony Stark o Bruce Wayne. Riley ha raccontato, in varie interviste, come leggendo supereroi da ragazzo e sognando di essere come loro avrebbe finito per diventare un poliziotto, se non avesse poi trovato altre passioni. E in effetti, anche quando sono ribelli, i supereroi (con qualche eccezione) si ergono a protezione dell’ordine sociale e non cercano di rivoluzionarlo. I proletari con super poteri di Sono vergine, che includono oltre al gigante protagonista anche la sua amata e superveloce Flora, la già citata Jones e un quartiere miniaturizzato a dimensioni lillipuziane, si batteranno invece contro le ingiustizie del capitale. Prima che scatti questo crescendo anti-sistema, inscenato in un tripudio di idee e con effetti speciali fieramente analogici, Sono vergine inizia come un fiabesco racconto di formazione, che riflette sui paradossi della condizione nera americana. I passaggi di rito dell’amore e della morte (un ragazzo che il sistema sanitario rifiuta di curare), sono a loro volta politici, perché rivisitati attraverso un gigantesco protagonista che è letterale metafora di come la società ingigantisca la relativa minaccia della delinquenza nera. Solo sette episodi, ognuno sotto i 40 minuti di durata, ma con il progetto di continuare per altre stagioni, bastano a dichiarare Sono vergine come una delle serie più originali, intelligenti e immaginative, attuali e militanti degli ultimi anni.
Boots Riley
Sono vergine
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