James baldwin

Nella distanza tra noi e i neri c’è l’abisso del nostro straniamento

di Lara Ricci

James Baldwin - Afp

3' di lettura

«Nella distanza che ci separa da[i neri] c’è tutta la profondità del nostro estraniamento da noi stessi». Nel 1955 il trentunenne James Baldwin scriveva questa frase, come se fosse bianco, in Notes of a Native Son, la sua prima raccolta di testi non narrativi. Raccolta che lo fece apprezzare da alcuni (per esempio Langston Hughes) ancor più come saggista che come romanziere, rendendolo una delle più influenti voci afroamericane del secolo passato, ora tradotta da Vincenzo Mantovani in Questo mondo non è più bianco. La scelta di utilizzare come titolo la frase finale del libro ha il pregio di mostrare subito quanto alcune di queste pagine siano ancora attuali e universali.

La constatazione che la disumanizzazione del nero, o più in generale dell’altro, sia indivisibile dalla nostra stessa disumanizzazione e dunque generi una società malata fin dalle fondamenta in cui sono tutti a soffrirne, una delle tesi centrali di queste riflessioni, infatti, parla ancora non solo agli statunitensi, ma anche a molti europei, italiani in particolare, in queste settimane di porti chiusi e naufragi.

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I saggi qui raccolti comprendono una memorabile stroncatura della Capanna dello zio Tom e di Paura di Richard Wright, alcune riflessioni su Harlem e sull’antisemitismo diffuso, sulla vita degli ex soldati americani inviati a studiare in Francia e alcuni toccanti racconti autobiografici, tra cui quello della morte di suo padre, e sono tutti attraversati dal doloroso problema dell’identità. «Né i bianchi né i neri, per ottime ragioni dettate dal reciproco tornaconto, hanno il minimo desiderio di voltarsi indietro a guardare; mentre io credo che sia proprio il passato l’unica cosa che rende coerente il presente» afferma Baldwin. Intrappolati tra un’origine cancellata dalla deportazione, l’inudibile storia recente della schiavitù, una cultura ufficiale che educava i ragazzini a sentirsi tutti discendenti di Leonardo, Shakespeare o Rembrandt, una cultura di massa che li spingeva a desiderare riccioli biondi e occhi blu e una controcultura che si definiva solo nella contrapposizione all’altra, poggiando dunque su false fondamenta e generando un odio che dava «al mondo un potere assolutamente micidiale su di [loro]» gli afroamericani si sentivano - e si sentono ancora, se diamo credito alle esilaranti satire di Paul Beatty o alle invettive di Ta-Nehisi Coates - res nullius.

«Il momento più cruciale del mio sviluppo avvenne quando fui costretto ad accettare che ero una specie di figlio bastardo dell’Occidente» scrive Baldwin. Da questa osservazione non ha tratto solo una consapevolezza esistenziale, ma anche una poetica: «Trascurando, negando, minimizzando la complessità [dell’uomo] - che non è altro che l’inquietante complessità di noi stessi- ci si immiserisce e si muore; solo entro questa rete di ambiguità e di paradossi, questa fame, questi pericoli, queste tenebre possiamo trovare nello stesso tempo noi stessi e la forza che ci libererà da noi stessi. È questa forza rivelatrice l’arma del romanziere». E poi Baldwin - che riteneva le Cause «notoriamente assetate di sangue» - aggiunge: «Questo viaggio verso una realtà più complessa deve avere la precedenza su tutte le altre rivendicazioni».

Nell’ultimo racconto Baldwin descrive il soggiorno in un paesino svizzero dove non avevano mai visto un nero: «C’è un abisso terrificante tra le strade di questo villaggio e le vie della città dove sono nato, tra i bambini che urlano Neger! oggi e quelli che urlavano Nigger! ieri: è l’abisso dell’esperienza, dell’esperienza americana. (...) la stessa parola che corre nell’aria di quel paese esprime la guerra che la mia presenza ha scatenato nell’anima americana». Ciononostante gli statunitensi bianchi nutrono ancora «l’illusione che ci sia il modo di recuperare l’innocenza europea, di tornare a uno stato in cui i neri non esistono(...). La visione del mondo degli americani – che concede così poco alla realtà di ognuna delle forze più oscure presenti nella vita umana, che ancor oggi tende a dipingere i problemi morali in un netto bianco e nero – deve molto alla battaglia che hanno fatto per mantenere tra loro e i neri un’incolmabile separazione sul piano umano». Una visione del mondo inutile, perché “preserva” la nobiltà d’animo al prezzo terribile di un indebolimento della presa sulla realtà. «Chiunque insista per restare in uno stato d’innocenza quando quell’innocenza non esiste più si trasforma in un mostro». È a partire da queste considerazioni che Baldwin arriva a concludere che l’«esperienza bianco-nera (...) ci sarà indispensabile nel mondo che oggi abbiamo di fronte. Questo mondo non è più bianco, e non lo sarà mai più».

Questo mondo non è più bianco

James Baldwin

Introd. di E. P. Jones, trad. di V. Mantovani, Bompiani, pagg.224, € 17,50

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