Ferragamo, nella separazione pesa il tenore di vita, ma no all’arricchimento ingiustificato della ex
Confermato, per ora, l’assegno di 60 mila euro al mese, malgrado la Cassazione abbia accolto il ricorso sull’addebito per la presunta infedeltà
di Patrizia Maciocchi
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Le grandi risorse di un imprenditore giustificano un maxi assegno, in caso di separazione, che consenta all’ex moglie l’alto tenore di vita tenuto durante il matrimonio, ma non giustifica un arricchimento smisurato di quest’ultima. L’ex marito può, infatti, impiegare la sua ricchezza nell’attività professionale o imprenditoriale o accantonarla con fini di risparmio o investimento. Basandosi su questi principi la Cassazione respinge, sul punto, il ricorso del noto imprenditore Ferruccio Ferragamo che chiedeva di tagliare l’assegno di 60 mila euro al mese, stabilito in sede di separazione, e in pendenza del procedimento di divorzio, destinato alla ex. Ma la Suprema corte dice no anche al ricorso incidentale di lei, che aspirava ad un mantenimento più sostanzioso, maggiormente in linea con i redditi dell’ex. I giudici di legittimità, per quanto riguarda la congruità dell’assegno, sono d’accordo con quanto stabilito dalla Corte d’Appello. Per la Corte territoriale, infatti, la disparità economica tra i coniugi va colmata quanto basta per consentire al coniuge “debole” che beneficia dell’assegno, «di mantenere uno standard di soddisfazione delle proprie esigenze non inferiore a quello precedentemente goduto» ma, avvertono i giudici, «una volta superato il predetto livello, le maggiori risorse di cui dispone il coniuge obbligato non può comportare un incremento dell’importo dovuto a tale titolo, traducendosi altrimenti in un’ingiustificata locupletazione dell’avente diritto».
Le risorse economiche investite nell’impresa
Le importanti risorse economiche dunque, possono trovare un’altra destinazione «risultando le stesse suscettibili anche d’impiego nella rispettiva attività professionale o imprenditoriale o di accantonamento a fini di risparmio o d’investimento». L’assegno resta dunque fissato a 60 mila euro per ex moglie più 20 mila per il figlio. Una cifra che dovrà essere adeguata alla rivalutazione Istat e al costo della vita nel Regno unito, dove la donna si è trasferita con il figlio della coppia, dopo la separazione. La Suprema corte ha accolto però il ricorso dell’imprenditore per quanto riguarda l’addebito della separazione alla ex, aprendo la strada al riconoscimento della responsabilità per la fine dell’unione a causa dei presunti tradimenti di lei. Una circostanza esclusa invece dalla Corte d’Appello, perchè, in passato, il ricorrente aveva tollerato la relazione extraconiugale che imputava alla moglie. «L’accettazione – si legge nella decisione - da parte del ricorrente di comportamenti lesivi del dovere di fedeltà, tenuti dalla moglie alcuni anni prima della proposizione della domanda di separazione», non esclude «la possibilità di far valere, quale causa di addebito, analoghi comportamenti tenuti successivamente dalla donna». Il ricorrente infatti «aveva chiesto di essere ammesso a provare che la predetta relazione era stata seguita da altre … in tal modo lasciando chiaramente intendere che la tolleranza da lui inizialmente manifestata …era venuta meno, a causa della reiterata violazione del dovere di fedeltà...che aveva determinato il fallimento dell’unione».
L’addebito “polveroso” ma resta
Ora sull’addebito la parola torna alla Corte d’Appello. La Suprema corte ha, infatti, respinto la tesi della ex moglie tesa a dimostrare la “polverosità” dell’addebito. Un istituto che comporterebbe, secondo la difesa della donna «un’ingiustificata disparità di trattamento a danno del coniuge economicamente più debole, privandolo del diritto all’assegno e dei diritti successori» per i legali «un istituto ormai obsoleto, sconosciuto agli ordinamenti di altri Stati membri dell’Unione Europea e non previsto neppure per le unioni civili, equiparate in tutto e per tutto al matrimonio». Per la Cassazione però è inutile tirare in ballo la Cirinnà. Perché, la legge sulle unioni civili (76/2016) non è un utile riferimento per contestare nel giudizio di legittimità la violazione degli articoli 3 e 29 della Costituzione sul divieto di discriminazione e uguaglianza dei coniugi. A differenza di quanto affermato nel ricorso incidentale, la legge Cirinnà tutela le unioni civili, alle quali estende alcune disposizioni dettate per il matrimonio ma non le equipara a quest’ultimo, per il quale l’addebito sopravvive. E, nel caso esaminato, si traduce in una spada di Damocle che pende sul maxi assegno
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